Lo zen e l’arte di manovrare un carrello elevatore tra i corridoi di un centro commerciale. Ovvero come trovare la poesia dei viventi e il dolore della sopravvivenza nello straniamento postumanistico della società consumistica. A muoversi in Un valzer tra gli scaffali (In den Gängen), fra i corridoi della cosiddetta “grande distribuzione” alimentare è Thomas Stuber, 37enne sassone alla sua opera terza, autentica sorpresa del Concorso della Berlinale 68 e conferma dello stato di grazia che sta attraversando il cinema tedesco in queste stagioni. A metà tra la love story astratta, il dramma sociale soft, la commedia pallidamente slapstick e il saggio visuale sulle scenografie industriali, il film si fa ispirare da un racconto breve dello scrittore sassone Clemens Meyer (che torna a sceneggiare col regista, dopo aver scritto con lui Herbert, la sua opera seconda) la vicenda di Christian, apprendista commesso di un grande magazzino alimentare. Taciturno e introverso, il giovane uomo ha un passato che si direbbe turbolento, a giudicare dal corpo ricoperto di vistosi tatuaggi che nasconde sotto il grigio camicie da lavoro e dalle visite poco gradite di amici nettamente fuori registro rispetto al suo understatement attuale. In realtà il passato di Christian conta poco, perché il ritratto che ne propone Thomas Stuber, attraverso il corpo stralunato di Franz Rogowski, è tratteggiato sul suo limpido e astratto presente come fosse un acquarello: inizia e finisce nell’orario dei turni di questo apprendistato alla vita di magazzino, cui lo sottopone il vecchio Bruno, suo mentore tra i corridoi del reparto bevande, un omone solido, essenziale ma dolce dentro, quasi una presenza kaurismakiana portata nel film da Peter Kurth, figura ritornante dal precedente film di Stuber, Herbert.
Christian entra nel silenzio sospeso dei turni diurni e notturni del supermercato con poesia impassibile, quasi fosse un Buster Keaton alle prese con le dinamiche disfunzionali del suo umore astratto: deve imparare a manovrare il carrello elevatore nei corridoi del magazzino, mentre la ritmica del lavoro si struttura sul gioco di relazione filosofeggiante di Bruno e dei suoi anziani colleghi. Una comunità di persone che hanno una lunga storia di umanesimo da manovalanza alle spalle , su cui Stuber costruisce una poetica lunare, una visione elevata dell’idealizzazione dal baso della dignità del lavoro, quasi la versione della coscienza di classe, aggiornata e corretta alle pratiche lavorative del consumismo imperante. Si muovono in sospensione tra partire a scacchi, musica classica diffusa dagli altoparlanti nella penombra degli scaffali, pause al distrubutore di caffè e spuntini a base di alimentari scaduti, ma ancora perfettamente commestibili, recuperati dai bidoni dei rifiuti. Il tutto nutrendo il loro spirito di corpo con la grazia di una comunità fuori dal tempo, sospesa tra la frenesia dei clienti e la ritmica di un lavoro che deve nutrire il leviatano del mercato, senza mai lasciare gli scaffali vuoti di merce. Lo strumento di lavoro su cui acquisire l’abilità di vita è il carrello elevatore, sfida quotidiana che Christian deve affrontare per acquisire il suo status lavorativo, dunque umano, mentre sul versante opposto del suo essere campeggia la passione che nutre per la dolce Marion (eccellente Sandra Hüller, piovuta nei corridoi di Stuber da Ti presento Toni Erdmann), commessa del reparto dolciario, sorta di sirena che attira la sua attenzione con la sua sicurezza sfacciata e sensibile. Il loro è un amore destinato, l’incontro di una gioventù che si proietta come una speranza di futuro sul tardo umanesimo dei quei lavoratori ormai anziani e abituati alla routine della vita. Il film si spinge così nell’esotismo stralunato di una love story fuori corso, sospesa sul matrimonio di lei e sulla timidezza di lui, eppure destinata ad avere corso. Ed è davvero un incontro keatoneggiante il loro, il sogno di una possibile visione differente della realtà e delle sue geometrie, su cui Stuber costruisce la poesia placida del suo film. Colori caldi, ritmo d’attesa più che d’azione, variazioni minime e sterzate improvvise, rapporto fluido con lo spazio scenico, personaggi che vibrano di vita antirealistica ma autentica: Un valzer tra gli scaffali tiene insieme tutti gli elementi di una complessione stilistica e compositiva che rendono poeticamente alta e altamente fruibile la poesia del film. La triangolazione tra Christian, Marion e Bruno, scandita anche dalle tre parti in cui il film si compone, funziona come contrapposizione tra differenti realtà esterne al mondo in sé concluso del magazzino: ognuno dei personaggi tiene fuori da quell’acquario di perfezione umana la storia della pripria (in)felicità esistenziale, il passato torbido di Christian, la vita matrimoniale perfetta ma arida di Marion, la solitudine estrema di Bruno. Va detto che è proprio nella svolta finale imposta dalla terza porzione di storia assegnata a Bruno che Stuber forse perde un po’ il controllo complessivo del film, lasciandosi andare a una tensione sin troppo realisticamente esistenziale, che sembra quasi infrangere l’astrazione lucidamente immanente cui il film si affida in prevalenza.