Ayka è un’immigrata kirghiza trapiantata a Mosca. È in ospedale, dove ha appena partorito, ma nel momento di distrazione di un’infermiera, rompe una finestra e scappa via sotto la neve battente. Deve dei soldi ai malavitosi che l’hanno fatta entrare in Russia, è alla perenne ricerca di umili lavoretti, non ha tempo (né forse cuore) per badare al suo bambino. La prova tangibile di una maternità negata si ha nelle insistite scene – che casualmente raddoppiano una situazione simile vista in Capharnaüm di Nadine Labaki, ambientato in climi e latitudini diverse – in cui la protagonista si strizza il seno per liberarsi del latte altrimenti destinato al suo bambino che non può più nutrire. La programmazione del Festival ha curiosamente affiancato i due film più ricattatori del programma principale. Se Labaki affoga di enfasi sentimentale e stilistica il suo inferno infantile di Beirut, Ayka di Sergey Dvortsevoy abusa invece di armi retoriche diverse ma non meno contundenti. Lo stile è un’esasperazione del pedinamento à la Dardenne: corse innevate con la macchina a mano incollata alla protagonista, quasi a lasciar solo intuire il contesto di degrado e a farci sentire i rantoli di fatica, i sospiri d’ansia, le fatiche di un dolore che non ha il tempo neanche di abbandonarsi alle lacrime; gli ambienti sono disumani; gli uomini tutti sfruttatori e violenti; l’ostilità e il sopruso dominano il mondo; solidarietà e comprensione si sono seccate in quel deserto innevato e gelido. L’idea (malsana) è sempre quella della compiaciuta insistenza sulla descrizione delle miserie umane: le condizioni di vita sono messe in scena con un compiaciuto tono punitivo, che affoga ogni possibile empatia in un affresco persecutorio, ostentato, ricattatorio.
Dvortsevoy, da buon russo, non si fa mancare neanche numerosi momenti di smaccata metafora: all’inquadratura iniziale, in cui vediamo dei neonati (tra cui quello di Ayka, destinato all’abbandono) in attesa di mangiare, corrisponde nella seconda parte del film una sequenza che mette in scena un’amorevole poppata di gruppo di una cucciolata di cagnolini, accuditi dalla loro padrona e da un veterinario. Insomma: siamo incapaci ormai di occuparci degli uomini ma riscopriamo la gentilezza con gli animali da compagnia. Una descrizione della perdita di umanità che è tanto urlata quanto grezza. La protagonista, Samal Yeslyamova (che per questa dedizione alla causa è stata ricompensata dalla giuria con il premio per la migliore interpretazione femminile), è sottoposta a una sorta di labirinto di sfortune, sola in mezzo alla gente che affolla i suoi precari luoghi di lavoro e la sua miserabile abitazione condivisa. Ayka è un film che non si ferma mai, come la sua protagonista, in un’ansia di denuncia che diventa controproducente, ossessiva, tonitruante: l’opera di un accumulatore seriale che non riesce a rinunciare a nulla per paura di non essere abbastanza convincente. Finisce così per diventare smaccato nella sua programmaticità, falsamente compassionevole, impassibile come un trattatello di sociologia che, nascondendosi dietro la sete di riscatto dei più deboli, si dimentica in realtà dell’umano, recuperato in fretta e furia in un finale futile e ipocritamente consolatorio.