Francesco De Gregori non pubblica un disco di inediti dal 2012, quando incise Sulla strada; ma in questo periodo non è rimasto inattivo, se è vero che nel 2014 ha realizzato un curioso lavoro di cover di se stesso (Vivavoce), mentre nel 2015 ha elaborato un notevole tributo a Bob Dylan (Amore e furto), e nel 2017 ha sfornato Sotto il vulcano, sedicesimo album live della carriera, dedicato all’amico Lucio Dalla. Forse anche per questo il tour estivo nemmeno ha un titolo. Eppure, nonostante che non ci sia nulla di nuovo da promuovere, le date stanno registrando ovunque il tutto esaurito. Se le ragioni per spiegare il fenomeno non mancano, noi ci limitiamo alle due principali. La prima è contingente e riposa nell’associazione finora mai perseguita (non in modo sistematico, perlomeno) tra monumenti di grande bellezza: da un lato i cortili, i giardini, gli anfiteatri di ville e palazzi di prestigio (noi, per esempio, abbiamo assistito allo spettacolo nel Vittoriale, splendida casa gardesana di Gabriele D’Annunzio); dall’altro la proposta folk-rock del cantautore romano, che integra poesia e inarrivabili melodie. La seconda è la conferma di uno status: De Gregori, a 67 anni compiuti, ha ormai ampiamente raggiunto la condizione di classico e non è la messa in campo di novità a renderlo attrattivo, quanto piuttosto la sua disponibilità ad attingere generosamente da un repertorio che vanta più gioielli che bigiotteria, e pure quest’ultima risulta di abbagliante qualità. Nelle ultime uscite, il riottoso Franz – uno che non ha mai avanzato la pretesa di mettersi a capo di qualsivoglia movimento musicale, e che è forse troppo schivo perfino per interagire con la miriade di nuove leve che lo hanno adottato, consapevolmente o meno, quale punto di riferimento – ha proposto a rotazione molte delle sue gemme, e ne restano tuttora parecchie che non trovano spazio. È lo stesso artista a spiegare come la predisposizione della set-list rappresenti una piccola soddisfazione professionale: “Mi fa piacere – argomenta De Gregori – quando il pubblico riconosce un pezzo dalle prime note. Mi piace però anche quel silenzio un po’ stupito che accoglie le canzoni meno conosciute. La bellezza del live è anche questa: la scaletta non deve essere scontata, bisogna mischiare un po’ le carte”. La novità di questo giro per il Belpaese, è la scelta acustica, mentre la direzione della band, anche a ranghi ridotti, resta in capo (come avviene ormai dal lontano 1985) a Guido Guglielminetti, bassista, contrabbassista e produttore di lungo corso.
Il live di Gardone Riviera (BS) – Il Vittoriale
Noblesse oblige: ha funzionato l’alchimia tra il principe della canzone italiana e il Vittoriale. L’incontro tra grandi bellezze ha regalato al pubblico accorso sulla sponda occidentale del Lago di Garda un concerto magicamente romantico. La veste scelta da Francesco De Gregori è acustica, senza la batteria a definire i tempi e una formazione di supporto di soli cinque elementi: voglia manifesta di avvolgente intimità, perfetta per la casa del Vate pur gremita all’inverosimile. E infatti il sound è folk che raramente indulge al rockblues, pur con molte chitarre, un po’ di armonica e un tocco pianistico che profuma di antico; ma più spesso è morbido, quando le ballate che sono il marchio della casa imboccano sentieri languidamente trasognati. De Gregori non smette più da tempo l’abito della festa: finito il tempo delle sperimentazioni, se non forse negli arrangiamenti ogni volta diversi, è tutto oro quello che luccica. L’artista romano non ha infatti del tutto perso, semmai attenuato, il vezzo – che ha mutuato dal suo nume tutelare Bob Dylan – di stravolgere gli arrangiamenti dei brani più celebri, per evitare che gli spettatori cantino a squarciagola. Tuttavia, mostra ora una buona disposizione verso la platea, atteggiamento non scontato qualche anno fa: “Questo- spiega, indicando le meraviglie circostanti – è uno dei posti più belli che si possano trovare: invitateci più spesso”. La rockeggiante Numeri da scaricare e la dolce Caterina sono le fondamenta poco usurate su cui De Gregori erige un live tutto in crescendo. Lo cementa con un omaggio locale, assegnando
ritmo solenne a Il cuoco di Salò (la Repubblica di ducesca memoria ricomprendeva anche questi spazi) a cui segue Buenos Aires, pezzo del 1979 che raramente si è ascoltato dal vivo. Quando annuncia Non è buio ancora, celia: “È di Bob Dylan: se non vi piace, pigliatevela con lui”.
L’originale del menestrello di Duluth era Not Dark Yet: la traduzione del cantautore romano (contenuta in Amore e furto del 2015) è superlativa, piena di sentimento. Dopo Vai in Africa, Celestino!, arriva una sontuosa Sempre per sempre, quindi Cose, eseguita da solo. Scorrono poi due gemme al rallentatore: è meravigliosa La leva calcistica della classe ’68, mentre forse troppo addormentata Generale, comunque applaudita. Il trittico composto da Raggio di sole, Gambadilegno e Bambini, venite parvulos (ritmatissima ed elettrica) diventa il trampolino di lancio per una sequenza finale impastata quasi soltanto di classici, canzoni tra le più belle nella storia della musica nazionale. Perché questo sono Santa Lucia (un incanto di rose e di spine), 4 marzo 1943 (uno dei capolavori di Dalla), La donna cannone (emozione purissima al servizio di un film, Flirt di Roberto Russo, dimenticabile e ampiamente dimenticato), Buonanotte fiorellino (altro “furto d’amore” al mito Dylan, almeno nella melodia), Titanic (un romanzo nello spazio di una filastrocca, qui con ritmo latino), Falso movimento (l’amore come un libro aperto), Alice (tormento e suggestione) Anema e core (la melodia napoletana alla conquista del mondo, interpretata in coppia con la moglie Chicca, chiamata a sorpresa sul palco). E Rimmel, la splendida Rimmel, una quarantaduenne che non invecchia, lasciata per il bacio finale.