Un racconto che conosciamo già nelle sue articolazioni, in quanto scritto nell’evidenza del suo dover andare secondo copione: la regola che avevamo enunciato per Infinity War, trova in Endgame una sua ulteriore evidenza. Il film, pur anticipato da una campagna anti-spoiler fra le più aggressive degli ultimi anni, è esattamente quanto ci si aspettava. Per la sua volontà di chiudere i fili narrativi lasciati in sospeso dal precedente film, ma anche per l’escamotage temporale propedeutico a sovvertire l’altrimenti definitiva conclusione dello scontro con il malvagio Thanos. In tal senso, stupisce che la campagna promozionale, che dapprima aveva annunciato il film come una dichiarata “parte II” della Guerra dell’Infinito, abbia poi voluto ribadirne l’autonomia con un titolo proprio. La prevedibilità del cosa si sposa infatti a una peculiare originalità del come: se Infinity War prediligeva una narrazione lineare che guardava al lirismo lucasiano, Endgame entra in contraddizione con il modello (esplicitato) di Ritorno al futuro, non si preoccupa delle regole altrui, adotta una narrazione contorta e convoluta e riscrive il suo rapporto con i precursori rivendicando una finitezza scevra da influenze. Per questo la narrazione si guarda indietro e analizza quanto seminato. L’autorialità marveliana (di Kevin Feige e dei fratelli Russo) sta proprio in questo: nell’essere talmente certi delle carte fin qui giocate, da far saltare gioiosamente il banco, rivendicando l’autoreferenzialità del mondo posto in essere senza complessi di inferiorità.
Endgame quindi è la celebrazione del proprio sé. La rivendicazione della centralità che il proprio lavoro ha ottenuto nell’immaginario contemporaneo, pur rifacendosi a storie di decenni fa e a esempi cinematografici che in undici anni non hanno creato una sola forma, riprendendo anzi modelli sempre già visti. Un esperimento riuscito grazie al carisma dei personaggi e dei loro attori, che non a caso sono proprio quelli su cui la narrazione si concentra: molto dialogato, soprattutto nella prima parte, Endgame è infatti quasi un character-study per come esplora motivazioni, dinamiche e scontri interni alla comunità dei supereroi, per come lavora sui loro corpi (si pensi alla geniale demistificazione di Thor) e per come, in ultima istanza, riesce ad appassionare in modo istintivo, nonostante i distinguo che si possono razionalmente opporre. Non a caso, se nel primo film era Thanos a sorreggere l’intreccio e a incarnare il dualismo caro ai Russo, tra onnipotenza e malinconia, qui le dinamiche oppositive sono proprie degli eroi: che sono riluttanti ma allo stesso tempo pronti a buttarsi nell’azione, disperati ma indomiti, fieri ma anche pasticcioni. Sono quelli che portano disordine contro l’ossessiva voglia di ordine del tiranno, laddove nel precedente film si ergevano quali paladini della realtà costituita contro la distruzione portata dallo schiocco. Thanos, così, (ri)diventa un semplice spauracchio, un totem da abbattere nell’epico confronto finale, una figura strumentale a un disegno più complesso in cui gli eroi (poco) mascherati fanno e disfano il già fatto e il da fare. In questa particolare autosufficienza dei “buoni” sta l’azzardo più forte di Endgame, quello che alla linearità tutto sommato rassicurante di Infinity War, così abile nel riprodurre le dinamiche da grande evento fumettistico, preferisce la torsione, l’imprevisto e l’azzardo. Anche per questo, mentre chiude l’arco narrativo decennale tornando all’eroe che lo aveva fondato, Endgame già suggerisce lampi di futuro: che possiamo ipotizzare sarà caratterizzato da eroi iconograficamente meno “perfetti” (se non panciuti come Thor, perlomeno non statuari), da una maggiore attenzione etnica (Falcon eredita lo scudo di Capitan America) e da una maggiore presenza femminile, come testimonia la carica delle eroine in battaglia e l’Asgard lasciata alle cure di Valchiria. In questo modo Endgame sgancia l’ultima sorpresa: forse quello che abbiamo visto non è un finale, ma solo la celebrazione ultima di un modello classico, mentre i semi già sono lì per far germogliare un futuro differente, che guardi alla ridefinizione dei ruoli, più vicina alla rinnovata sensibilità di Hollywood e della società attuale.