“Un seme deve completamente distruggersi perché possa diventare un fiore. È una violenza, Honey Boy.” 1995. Un padre parla a suo figlio, finalmente lo stringe, e non sa – o forse sì – che il suo discorso va molto al di là della marijuana che ha piantato e che ha fatto provare al ragazzino. È una scena emblematica, questa, è scorretta, non è assurda, è dolce e autentica. Otis (Noah Jupe), 12 anni, attore televisivo, è l’Honey Boy di un padre, James, terrorizzato, fallito, incapace di contatto se non quando fa male al figlio, incapace di tenergli la mano per la paura di essere scambiato per un pedofilo; è un clown da rodeo che ha conosciuto il carcere, ha un passato di droga e alcol con dure ripercussioni nel presente; lavora per Otis, è il suo supervisore, lo accompagna in moto sul set e lo riporta a casa, uno squallido motel, perché altrimenti, forse, James sarebbe altrove; perché, per il piccolo, è forse il solo modo di averlo accanto a sé. Ma Otis ha anche 22 anni (Lucas Hedges), è il 2005, è una giovane star del cinema finita in un centro di riabilitazione per ordine del tribunale, e quell’infanzia, quel padre lo tormentano ancora. I set televisivi e quelli del cinema, un bambino colpito da una torta in faccia per mestiere, un ventiduenne che salta in aria per mestiere, mentre una corda invisibile lo protegge, prima del prossimo ciak.
I tuffi nella piscina di un motel, poi una piscina dove imparare ad abbracciare. Tutto quello che c’è da sapere sulla parte bianca delle feci di gallina sembra scontato ma non lo è. Honey Boy è una confessione, una seduta, uno slancio, un viaggio nel tempo, un tentativo di riappropriazione. È un film di Shia LaBeouf, perché lo ha scritto, dentro c’è la sua vita e qui interpreta il padre di Otis, interpreta cioè suo padre. Perché, durante la riabilitazione seguita a una rissa fuori da un set, ha iniziato davvero a scrivere del rapporto con la figura paterna, realmente clown e supervisore dello Shia attore bambino, e da lì è nato il seme della futura sceneggiatura poi diventata un film diretto da Alma Har’el, amica dell’attore, regista di videoclip per Beirut e Sigur Rós e autrice dei documentari Bombay Beach e LoveTrue (di quest’ultimo LaBeouf è stato produttore esecutivo). Un film fluido, tra l’infanzia e la gioventù, la vita e la sua riscrittura finzionale, tra i ricordi del passato e i brutti sogni di oggi, dove non necessariamente verità e memoria sono la stessa cosa, e non è questo che conta. E, davvero, non conta neanche che lo script non sia da manuale perché i sentimenti non possono esserlo mai; non importa che le forme non si spingano troppe oltre, perché quelle del racconto, qui, non sono strade ma schegge, lampi, fantasmi. È un film imperfetto, “sporco”, ma fatto di tante tracce, di tanti sguardi, di cose quasi invisibili di cose che si dicono e di altre, le più emozionanti, le più frastornanti, che restano mute.
È un film sulla paura, sull’amore, su ciò che non può tornare, che finisce, ma tutto questo sembra possedere una levità quasi astratta, inspiegabile. I due Otis non si vedono, sono molto diversi, sentono però le stesse cose, le stesse mancanze, ma ciò che il bambino non sa diventa dolore non più sopprimibile nel giovane uomo. Otis recita storie, ma vuole altre “stories”, così come chiede al padre mancato un’intera notte, mentre il bambino ogni volta si innamora di una giovanissima prostituta, Shy Girl, che conosce silente il gioco dell’amore. Un Otis-Pinocchio, come lo descrive Har’el: “È un ragazzo che è controllato dagli altri. Non vuole altro che tagliare i fili della marionetta ed essere un vero ragazzo, ma continua a mentire, il che fa sì che il suo naso diventi sempre più lungo agli occhi di tutti. Pinocchio può diventare un ragazzo vero solo se si dimostra ‘coraggioso, sincero e altruista’. Alla fine, il suo desiderio di provvedere a suo padre e il dedicarsi a incarnare quelle caratteristiche lo trasformano in un ragazzo vero”. E alla fine, anche seguire i passi di una gallina smarrita potrà forse rivelare da dove veniamo, chi siamo, dove andiamo.