Immigrati nella casa degli orrori: Su Netflix His House, di Remi Weekes

Si è parlato di “horror sull’immigrazione” a proposito di His House, esordio di Remi Weekes distribuito (anche in Italia) da Netflix, ma in realtà lo spunto abbandona abbastanza in fretta l’analisi dei meccanismi di accoglienza, propedeutici unicamente a stabilire il setting, per concentrarsi sulla diversa risposta dei due protagonisti alla nuova situazione e ai suoi risvolti soprannaturali. Gli eventi ruotano attorno a due immigrati sudanesi in Inghilterra che, in attesa di essere riconosciuti come rifugiati, vengono collocati in un’abitazione dalla quale, però, non possono allontanarsi. Quella casa, che rappresenta per i due il luogo dove rifarsi una vita, è anche una sorta di limbo, lo spazio di una condizione che non permette loro di realizzarsi economicamente e socialmente. Alla dualità dell’accoglienza ricevuta corrisponde la dualità della risposta della coppia: lui, Bol, è ansioso di essere accettato nella nuova cultura; lei, Rial, ha difficoltà a distaccarsi da quel passato che le è rimasto inciso sulla pelle (letteralmente, visti i segni tribali che porta sul corpo) e dal dolore per la perdita della figlia durante la traversata in mare. La speranza e il dolore convivono dunque in quella casa estraniata che li ospita e che diventa ancora una volta il centro degli orrori.

 

 

L’abitazione concessa dallo Stato sembra infatti stregata e questo ha una ricaduta diretta sulle reazioni di Bol e Rial: per l’uno è il disgregarsi di quella sicurezza che ormai ritiene a portata di mano, laddove per l’altra è un modo per mantenere saldo il contatto con l’aldilà che si è presa la figlia e, soprattutto, per conservare un legame con la sfera magica della cultura d’origine. A partire da questa dinamica, Weekes riesce a creare un’efficace sintesi fra l’iconografia tribale, le tradizioni mistiche africane e la lezione dell’horror occidentale. Al di là dei più facili spaventi, relegati principalmente nella prima tesissima parte, His House concentra infatti le sue istanze sulle percezioni di Bol e Rial e sul loro rapporto con la nuova realtà. Una dinamica fatta di interazioni più o meno difficili con i vicini, di difficoltà a districarsi fra i viottoli del quartiere e naturalmente di problematicità nel rapporto con le autorità (rappresentate, in un divertente e sagace gioco metanarrativo dall’ex Doctor Who Matt Smith, tanto per acuire la voglia di giocare con i piani del reale). Il processo procede di pari passo con la “spoliazione” materiale della casa messa in atto da Bol nel tentativo di affrontare le presenze malefiche, e determina una trasformazione che va sempre più a scarnificare la specificità del luogo, nel tentativo di carpirne la natura.

 

 

Il semplice racconto della casa stregata diventa insomma l’occasione per una più ampia ricognizione sul senso dello sradicamento dalla cultura d’origine e sulla difficoltà dell’adeguamento a una nuova realtà. Si evita così, per una volta, il classico pericolo dell’esotismo legato alla rappresentazione delle culture africane da un punto di vista occidentale, lasciando emergere il ricco background dell’autore, inglese di nascita, ma di discendenza nigeriana. Allo stesso tempo si affronta da una prospettiva soggettiva il tema dell’immigrazione, legandolo non più alle sole dinamiche di tipo politico o sociale, quanto a modalità più profonde e intime, connesse ai vissuti “reali” dei personaggi. Dove proprio la verità su quanto è realmente accaduto durante la loro drammatica fuga e sulla composizione di questo nucleo familiare, legato eppure già disgregato nei suoi affetti, giocherà un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’intreccio e nella relazione con le malefiche presenze che incombono sulla possibilità di una vera nuova vita per la famiglia. È questo il vero fulcro di un film che tiene efficacemente insieme l’approccio horror ai temi sociali e etnici adottato da Jordan Peele nel suo cinema e la lezione di Lucio Fulci, col suo gusto per le sovrapposizioni sonore di frasi sussurrate unite alla concretezza dei corpi insanguinati dei non morti che entrano in contatto coi vivi. Questa dinamica conferisce una natura sfaccettata a un film che, forte della formazione del regista nella pubblicità, offre allo spettatore un efficacissimo impianto horror e una chiave di lettura più moderna e problematica.