La prima cosa che arriva, guardando I Comete – A Corsican Summer, è la costante sensazione di qualcosa di incombente sulla scena, qualcosa che resta costantemente fuori, ma che ne governa in profondità il dramma vestito da vacanza estiva, al quale capiamo bene di essere difronte. Ecco, se è il caso di segnalare, anche a distanza di qualche tempo dallo Special Jury Award che ha vinto a Rotterdam 50, questo primo lungometraggio dell’attore e regista corso Pascal Tagnati (ora in concorso allo ShorTS), non è solo perché giunge da una terra così vicina e così lontana (anche cinematograficamente) come la Corsica, ma soprattutto perché è una piccola folgorazione che apre parecchie prospettive interessanti. La prima è proprio sul suo autore: alcuni corti alle spalle, Tagnati è un attore cinematografico e teatrale e un musicista, e anche solo a leggere le sue interviste mostra una personalità indipendente che promette molto. “Faccio cinema per me stesso, se poi i miei film piacciono al pubblico ne sono felice” dice senza mezzi termini, a confermare la sensazione distaccata ma pulsante e empatica che lascia questo suo esordio nel lungometraggio (“lunghi, corti: per me non fa nessuna differenza”…).
I Comete è un racconto d’estate in Corsica, questione quanto mai distaccata da qualsiasi immaginario possa circolare, tanto più che per una volta la tradizionale connessione malavitosa che nutre l’immagine dominante dell’isola mediterranea è rimossa. Più che altro, il film è una sorta di stream (giusto per rimandare alla scia delle comete, cui si riferisce il titolo corso) of consciousness collettiva, una narrazione diffusa e confusa tra gli abitanti di Tolla: 120 anime con vista sull’omonimo lago nel sudovest corso, non troppe case, la maggior parte abitate solo d’estate, quando la diaspora degli abitanti diventa un ritorno sospeso sul vuoto di coscienza delle vacanze. Ed è proprio su questo umore che il film è costruito, seguendo le pulsioni di una miriade di personaggi (in parte attori, in parte veri abitanti: anche qui Tagnati dice di non fare troppa differenza…), che vivono i loro giorni al sole mentre covano attese, divergenze, problemi endemici, moti dello spirito… Un po’ come fosse un Miguel Gomes più puntuto e con meno senso dell’umorismo, Pascal Tagnati tesse una tela che non pretende la raffigurazione di una comunità, ma attende la sua epifania, la rivelazione di uno spirito che emerga nella relazione libera tra l’essere e l’accadere. E lo fa lasciando che su tutto vegli la tensione del mito, ovvero l’arcaico e imperscrutabile senso del tempo che appartiene ai luoghi. Le figure si individuano dunque per cenni dinamici e allusioni drammaturgiche: si sta sotto il cielo, attorno a una panchina ragazzini oziosi e vecchi in bicicletta, giovani seduti su un muretto, socialità a perdere nel giro quotidiano del sole estivo.
L’orientamento sembra offrirlo la figura di François-Régis, un nero (interpretato da Jean-Christophe Folly) che si muove tra le varie presenze, con una generosità che non è solo emotiva ma anche pratica e gli viene dal fatto di essere il figlio adottivo di una ricca famiglia, retta da una anziana matriarca malata. Suo fratello, probabilmente un affarista (meglio non fare troppe domande…), arriva in elicottero e sembra presenza più tagliente, come affilate sembrano certe situazioni parallele: qualcuno ha debiti che non riesce a pagare, qualcun altro nutre una rabbia quasi arcaica che gli fa appiccare incendi in un ovile con la stessa rabbia indifferente con cui si masturba guardando sul web una ninfa del posto che fa soldi con performance a pagamento trasmesse in una radura sul lago…Tagnati, insomma, si muove a filo d’acqua, guardando l’orizzonte ma vibrando assieme alle correnti sotterranee che la agitano, ed è per questo che I Comete produce un senso inquietante prima ancora che inquieto, nutre un distacco al quale si risponde con apprensione proprio perché si riesce a mollare gli ormeggi e farsi trascinare al largo. E lo capisci che questo è un film capace di smuovere regioni oscure da come ti coglie di sorpresa in certe aperture quasi sovratestuali: l’accensione letteralmente porno della ninfetta e quella dall’altro lato del web del suo spettatore, la scena in acqua sotto la cascata in cui viene intonato il canto della tradizione corsa “La morte di Filicone”… O da come Tagnati dissemina continui sottotesti, a partire dalla questione CorsAfricana che, attraverso il personaggio di François-Régis prende sempre più piede, sino a scontornarsi in una dimensione quasi identitaria nel bellissimo finale al capezzale della matriarca, in cui evoca la sua vera madre che ha visto in sogno. Il film resta tutto sospeso e costruisce sul vuoto una concretezza che è tanto più presente e pressante quanto più indefinita e sfuggente. Il vuoto d’aria che scaturisce dallo scontro titanico tra la forte identità del luogo e la deriva della coscienza dei suoi abitanti: come il ragazzino che giace ubriaco nel cimitero, sulla tomba mezza aperta e mezza chiusa di qualcuno.
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