L’assunto è semplice: raccontare la carriera di Quentin Tarantino lungo l’arco temporale che va dall’esordio con Le iene fino a The Hatetful Eight. Sono concessi ovviamente alcuni sfondamenti del perimetro, per citare anche il “prima” – dall’attività nel videonoleggio alle sceneggiature di Natural Born Killers e Una vita al massimo – e il “dopo”, ovvero C’era una volta a Hollywood, presumibilmente in corso di lavorazione mentre il documentario di Tara Wood prendeva forma. Ma la scelta degli otto ha un valore ben preciso, essendo questi i titoli che Mr. Q ha realizzato sotto l’egida di Harvey Weinstein. La presenza del produttore all’interno della narrazione è discreta, la sua figura resta sullo sfondo, si stabilisce che interferiva poco con il margine d’azione acquisito immediatamente dal regista grazie ai fenomenali e chiacchieratissimi (in senso buono) titoli d’esordio. Eppure, gli spunti non mancano, e periodicamente questo spettro produttivo torna a far capolino, perché quella che alla fin fine va in scena è proprio una dialettica sul Potere. Da un lato, infatti, c’è quello del Cinema, nel senso più alto del termine. Un’arte riverita da Tarantino attraverso il suo particolare mix di citazioni e reinvenzioni su cui già tanto si è scritto e detto: da questo versante, va precisato, il film non aggiunge molto alla “mitologia” che negli anni ha avvolto l’autore-rockstar, limitandosi a un preciso seppur gradevolissimo compendio delle suggestioni che ogni appassionato ben conosce.
È interessante notare come, in ogni caso, la sottolineatura della libertà grazie alla quale l’autore “fa quel che vuole” a proposito del casting (scegliendo a volte divi ormai in declino), delle musiche o delle regole del set (dove tutti devono consegnare il cellulare prima di entrare) stabilisca comunque un metodo non dispotico, perché Tarantino concepisce il girare come un momento di convivialità e condivisione di esperienze. In effetti, le testimonianze delle personalità coinvolte (Tim Roth, Samuel L. Jackson, Michael Madsen, Christoph Waltz e un emozionatissimo Jamie Foxx, fra gli altri) sottolineano proprio il piacere di un metodo di lavoro basato sulla comune finalità degli intenti, sul massimo risultato artistico e su un’idea di cinema d’autore totale, dove ogni ingranaggio concorre a creare una visione. Quindi un esempio di Potere costruttivo rispetto alle possibilità che il cinema offre e che permette di orientare le forze al bello (nel senso platonico del termine). Dal versante opposto si situa invece il metodo dispotico di un Weinstein che appare lo speculare esatto del regista: orientato a stabilire sempre la sua autorità – esemplare il racconto della bambola della figlia strappata dalle mani di Michael Madsen e poi restituitagli per ragioni di convenienza – fautore della distruzione di carriere, riassume in sé il Potere distruttivo dell’industria e permette di inserire in una prospettiva più ampia il percorso del cinema indipendente americano (che il film frettolosamente equipara alla Nouvelle Vague francese) stabilitosi negli anni Novanta e da cui Tarantino ha tratto frutto, pur distinguendosi immediatamente. Non a caso un altro spunto che ritorna è quello degli imitatori e degli epigoni sorti dopo Pulp Fiction, che non hanno lasciato traccia di sé.
Su tutto, la specularità garantita dalle due figure di Tarantino e Weinstein è riassunta a perfezione dalla loro assenza: escludendo i filmati di repertorio e dai backstage in cui li vediamo in azione o le animazioni create ad hoc, entrambi i personaggi non sono infatti presenti direttamente nel film, non ci sono loro interviste attuali, né li si vede “al presente”. Sono, di fatto, due presenze incombenti raccontate da fonti altre, che nell’incontro delle rispettive testimonianze, li collocano ai due estremi del disegno. In questo senso, QT8 – Quentin Tarantino: The First Eight (dal 26 febbraio in esclusiva su MioCinema) è davvero un racconto sul cinema, più che su una (o meglio due) figure rappresentative dell’ultimo trentennio. Una storia ancora più interessante poiché descrive una situazione tipicamente “classica” (il produttore-padrone e il giovane genio) declinata su una modernità che in questi mesi si sta riscrivendo e superando: da un lato complice l’imposizione più ferrea del neo Studio System (si pensi al metodo Marvel) che deprime le autorialità singole, e dall’altro per movimenti come il #metoo, che hanno avuto il coraggio di mettere in discussione i rapporti produttivi all’interno di Hollywood. In questo senso, lo spunto più interessante e dirompente offerto dal film è che, pur nella consapevolezza del suo genio, Tarantino non sia quell’anomalia che ci è stata più volte raccontata. Lo vediamo nel modo in cui i suoi film, così diversi tra loro, vengono invece ricondotti a un’idea di narrazione coerente. Ma soprattutto perché anche la sua è, in fondo, una tipica storia americana.