This must be the life: tracce di un’autobiografia in fuga dall’amarcord. La cosa che più colpisce di È stata la mano di Dio (in Concorso a Venezia 78) è l’implicita attenzione con cui Paolo Sorrentino ha evitato di cadere nelle maglie del fellinismo che ogni autobiografismo cinematografico si porta dietro, soprattutto se di marca italiana e dunque inevitabilmente impiantato nelle narrazioni regionalistiche. Questo non è un film che nutre la memorialistica performativa, la mitologia dell’ego narciso che si guarda guardarsi, è piuttosto un’opera che sistema sul tavolo le foto di famiglia e senza pretendere di rifletterle nell’empireo delle idee. Del resto l’impulso del film è nato d’improvviso, in una pausa di scrittura delle serie pontificali, quasi come gesto di chiarificazione delle proprie idee. Svicolando dalle stanze del giovane Papa, Sorrentino si è ritrovato nelle stanze del vecchio papà, ritrovando se stesso come un adolescente solare e solitario al quale dà il nome di scena di Fabio, anzi Fabietto come tutti lo chiamano: non fa mistero che quel ragazzo è lui e la storia che sta raccontando è più o meno quella della sua famiglia, che nel film diventa la famiglia Schisa. Ci sono il padre Saverio e la madre Maria (Toni Servillo e Teresa Saponangelo), il fratello maggiore Marchino e una sorella che sino alla fine è solo una voce chiusa nel bagno, la zia Patrizia isterica per mancanza di figli e con destinazione manicomiale e il suo gelosissimo marito Franco (Luisa Ranieri e Massimiliano Gallo), la baronessa del piano di sopra e un’ampia corte di familiari.
Ognuno con la sua storia, con le sue battute, con un suo momento comico o drammatico a tessere la trama di quella che poi altro non è che la narrazione della fine dell’infanzia di Fabietto, schiantato contro il tragico evento che impone una fine a quella storia di famiglia e dà inizio al tempo dell’età adulta. Tutto qui: È stata la mano di Dio sta interamente in questa visione d’insieme, alla quale Sorrentino aggiunge il catalizzatore Maradona, figura quasi trascendentale di un ordine delle cose nella vita di Fabietto inscritto nell’attesa spasmodica della sua venuta e nella gloria della sua presenza. Una bella soluzione per dare un punto di fuga condiviso, collettivo, a un film che doveva apparirgli inevitabilmente introflesso. Che poi, a pensarci bene, la vera sorpresa di questo lavoro non è tanto la questione dello stile, la semplicità e la naturalezza che fanno lievitare l’impasto filmico e lo rendono leggero, soffice, privo dei barocchismi e degli intarsi che definiscono solitamente la griffe sorrentiniana. La sorpresa sta piuttosto nella capacità di risultare per una volta uno spazio aperto, di offrire un immaginario condiviso invece che scultoreo, monumentale. In questo il film è decisamente un atto di consapevolezza puntuale e preciso, che umanizza la percezione distante e quasi astratta che il cinema di Sorrentino lascia allo spettatore, disperde quell’ammirazione forzosa per il gesto registico che finisce col sovrastare il gesto filmico, ne doma la naturalezza, ne addomestica l’immediatezza. Qui tutto scorre più lievemente non solo nella piacevolezza della narrazione, nel sentimento autobiografico che promana da ogni inquadratura rendendocelo simpatico, vicino, ma soprattutto nella semplificazione degli elementi scenici e visivi, nella flagranza dei caratteri tenuti a distanza dalla tipica performazione plastica sorrentiniana.
Lo spiega molto bene lo stesso Sorrentino quando dice che “la principale differenza tra questo film e gli altri che ho fatto sta nel rapporto tra verità e bugie: se gli altri miei film si alimentano di falsità nella speranza di individuare un barlume di verità, questo parte da sentimenti reali che sono poi stati adattati alla forma cinematografica”. Sembra quasi di risentire lo schernirsi felliniano dinnanzi alle domande su verità e menzogna nel costante autobiografismo dei suoi film. E poi assume un valore tutto particolare l’evocazione esplicita e diretta di Antonio Capuano, che nella parte finale del film Fabietto va a conoscere in cerca di un viatico per il mondo del cinema: l’incontro con l’incontenibile e urlante sincerità di quel grande regista (col quale Sorrentino ha davvero fatto i primi passi) è lo specchio in cui si riflette e si nega l’evidente fellinismo dell’incipit, con zia Patrizia imbottigliata nel traffico della città come fosse il Guido onirico all’inizio di 8 ½, con quell’incontro con San Gennaro e il monacello nelle stanze di un sontuoso e antico palazzo. È stata la mano di Dio è dunque un’offerta lasciata da Sorrentino sul piatto della verità espressiva: “Resta unito” urla a Fabietto l’iroso Capuano prima di tuffarsi nel golfo di Napoli…