Cinque anni fa, l’esordio di Yonebayashi Hiromasa Arrietty – Il mondo segreto sotto il pavimento recuperava una sceneggiatura scritta quattro decadi addietro da Miyazaki Hayao (smozzicando dalla saga letteraria degli Sgraffignoli di Mary Norton, che tre lustri prima erano già stati portati sullo schermo nel dimenticato I rubacchiotti). La promozione a regista di uno dei capi animatori dello Studio Ghibli avveniva quindi nel solco di una ricerca di affinità tematica (la dimensione ecologista, il valore della diversità -psicologica oltreché fisica-, il rapporto conflittuale con l’idea di ricchezza) ed estetica (il character design, la palette di colori e la struttura narrativa a progressione emotiva collaudata) con le opere del più riverito (all’estero) dei due maestri fondatori. Il film, bello ma non bellissimo, riusciva paradossalmente a emozionare proprio malgrado la sua implicita mancanza di personalità autonoma: ovvero per la capacità di indicare un potenziale rinnovamento nella continuità miyazakiana una volta che la decisione (già nell’aria) del Maestro di concludere la sua gloriosa carriera dopo Si alza il vento fosse stata effettivamente presa. E l’idea assumeva particolare rilevanza tenendo conto del fatto che il medesimo proposito era già stato espresso dal cofondatore Takahata Isao (il cui capolavoro La storia della principessa splendente, all’epoca già in lavorazione, era stato parimenti annunciato come opera finale) e che la filmografia del figlio di Miyazaki, Goro, autore in crescita, stava già staccandosi esteticamente e tematicamente con nettezza dal canone Ghibli.
L’aderenza di Yonebayashi al canone del suo maestro è alla base anche di Quando c’era Marnie, il primo film della storia dello Studio Ghibli a non aver goduto di alcuna supervisione né da parte di Miyazaki né di Takahata. Tratto dal romanzo omonimo dell’autrice britannica per ragazzi Joan Gale Robinson, è la storia (di cui è meglio non svelare troppi dettagli) dell’amicizia tra Anna, una giovanissima che soffre d’asma psicosomatica e che i genitori adottivi mandano a trascorrere l’estate presso parenti di campagna, e la sua coetanea Marnie, che sembra provenire da un’altra dimensione temporale, incontrata in una villa dove si vocifera abitino spettri. La loro storia è già scritta (come testimonia un diario ritrovato dalla nuova inquilina della villa, Sayaka, la cui lettura dimostra come il presente di Anna appartenga al passato di Marnie cortocircuitando la “realtà”) e il legame che le unisce intuibile, malgrado l’inedita declinazione del loro rapporto nelle forme di una latente attrazione omoerotica. Così come sono facilmente prevedibili (e molto di maniera) sia la direzione emotiva che la ghost story mélo (oops) è destinata a prendere sia la quantità davvero eccessiva (e troppo evidente, e al fondo inutile) di citazioni e rimandi più o meno alti. La “speranza” Yonebayashi, malgrado il grande successo del film ai botteghini nipponici, viene quindi disattesa: sebbene sul piano tecnico ed estetico il film risulti (quasi irrispettosamente) ancor più perfetto, ricco e sotto certi aspetti perfino più intenso delle ultime opere Ghibli dei padri fondatori, il regista non dà più l’impressione di volerne rielaborare le istanze, ma solo quella di porsi in scia da copista di lusso. Lo stesso “difetto”, se vogliamo, delle opere Disney pensate e prodotte dopo la dipartita di “zio” Walt: perfettamente inscritte nella filosofia produttiva ed estetica della factory, ma fatalmente prive della spinta poetica originaria. Alla Disney ci vollero quasi vent’anni per trovare nuove credibilità ed equilibri (più o meno da Gli Aristogatti a La sirenetta); speriamo non ce ne vogliano altrettanti allo Studio Ghibli.