Un urto sonoro, un bang che risuona nella testa, nello spazio, nel tempo… Onda d’urto della memoria e memoria di un’onda d’urto: ecco finalmente, a quasi un anno di distanza dalla sua presentazione a Cannes, il nuovo film di Apichatpong Weerasethakul (nelle sale e a breve online su Mubi). Il suo cinema è sempre più una questione di smaterializzazione della natura solida dell’esistere: un dialogo tra elementi organici e inorganici, condotto nel tempio del tempo, quella Memoria cui il film è intitolato. La sacralizzazione della meccanica cronologica nell’astrazione spirituale del ricordo: c’è il tempo che scandisce gli eventi e c’è lo spirito che li ricorda e li trasmette… L’uomo sta in mezzo, come un recettore o un conduttore di un’energia che non conosce e non capisce: proprio come Jessica (che ha la monumentalità angelicata di Tilda Swinton, presenza pura e marmorea…), che coltiva orchidee ed è giunta in Colombia, a Bogotá, per accudire la sorella ricoverata in ospedale. Jessica una mattina all’alba è percossa da un suono, un colpo basso e profondo che la sveglia e che continua a sentire periodicamente, senza capirne la fonte.
Un giovane tecnico del suono la aiuta a riprodurlo in uno studio di registrazione, ma Jessica ha la consapevolezza che quell’onda d’urto che la scuote non risponde alla fisica degli elementi, ma a quella degli eventi: è piuttosto una memoria inconscia, che disappartiene al corpo che la ricorda e corrisponde semmai alla stratificazione del tempo in cui è immersa. L’istinto la porta infatti a seguire Agnes (che ha le risonanze di Jeanne Balibar), una archeologa che studia i resti umani ritrovati in un tunnel, e la deriva nel passato che ne consegue mette Jessica in contatto con Hernan, un pescatore che si ricorda le vite precedenti e non dimentica mai nulla: terabyte, anzi petabyte di memoria organica, che non si può cancellare e che la connette con la ragione di quel suono da cui è scossa. Una ragione che sta nel passato, ovvero nel futuro…È evidente che per Apichatpong Weerasethakul la circolarità del tempo corrisponde alla ragione stessa del filmare: il suo sguardo attraversa la stratificazione degli eventi storici e narrativi con una profondità di campo che gli permette di tenere insieme l’alfa e l’omega, senza la pretesa di una coerenza che non ragioni in termini di tridimensionalità spirituale.
Un film come Memoria ne è la testimonianza flagrante, proprio per la capacità che ha di alleggerire il peso della materia che mostra, liberarla in una forza d’urto impalpabile: è un film che nasce da un suono che non appartiene nemmeno alla fisica acustica, è la storia di un risveglio che risponde alla chiamata del tempo e esprime il ribaltamento del rapporto tra la Storia e l’Uomo. Una rivoluzione copernicana (sotto il monumento a Copernico Jessica si ritrova più volte) che toglie l’uomo dal centro dell’universo e lo reinserisce nell’orbita di eventi di cui è parte e non artefice. Tutto il cinema di Apichatpong Weerasethakul risponde a questa energia e Memoria ne rappresenta la forma plastica, col suo placido articolare questo ribaltamento di prospettive: Jessica è una sorta di Giovanna d’Arco che disincarna la Storia, non sente la voce di un dio, ma quella degli uomini e risuona del tempo dei loro astrali antenati…