Anche se il titolo del film avesse menzionato il mondo degli psicofarmaci entrati a far parte della vita di Fuani Marino, autrice del romanzo (Einaudi) da cui è tratto il lungometraggio di Francesco Patierno e prodotto da Luce Cinecittà, il risultato non sarebbe cambiato di molto. Forse soltanto un po’. Se non si fosse intitolato Svegliami a mezzanotte ci si sarebbe domandati seriamente a quale forma del documentario appartenesse perché risulta evidente che il film non segue i binari stretti della convenzione e i regimi di ibridazione e contaminazione dominano incontrastati. Benché aderente al testo omonimo, quindi, il titolo del film di Patierno mescolando materiale d’archivio a racconto personale si dimostra coerente nel rendere chiara quella linea poetica che in altri casi non sarebbe stato in grado di raggiungere.
Al di là di questo, l ’intenzione di Patierno è chiara fin da subito: dopo aver condotto lo spettatore di fronte al mistero del disagio psichico per metterlo nella condizione di scoprirne i luoghi più oscuri e inquietanti, le zone illeggibili e ambigue, gli spazi e i tempi mortiferi che spazzano via ogni forma di fiducia e accettazione di sé, il film ricostruisce la storia di una vita a cominciare da quei pezzi di esistenza non ancora o non del tutto cancellati ma illuminati da una flebile voce interiore che al termine di un’odissea sofferta restituisce il senso di una salvezza che dona speranza. Lo stesso Patierno ha dichiarato: «Tra il prima e il dopo dei secondi di quell’interminabile caduta della protagonista sono condensati i grandi temi dell’esistenza umana senza nessuna concessione al melodramma, alla retorica, alla commiserazione. Per farlo, ho sposato lo stile e un meccanismo narrativo, affinato nel tempo, composto da un mix creativo di immagini girate e immagini di repertorio montate e manipolate ad arte per riuscire a raccontare cose che sarebbero difficili da mettere in scena con uno stile più convenzionale o un racconto di finzione. Semplici ma eleganti associazioni visive che mirano a tessere il filo della trama e a compiere un vero e proprio viaggio in soggettiva nei tortuosi meandri della mente umana».
Il film di Patierno, scritto insieme a Marino, rispetta fedelmente l’idea originale dell’omonimo romanzo e attraverso l’uso del montaggio delle attrazioni si assume l’onere di restituire le immagini di un dramma esistenziale senza la pretesa di risolvere o senza la presunzione di poter dare risposte. Dare forma al pensiero, creare le immagini di cicatrici interiore, rendere plastica la memoria già diventata scrittura, già passata dal corpo, dalle lacrime e dalle ferite. Come nel testo originale, il film di Patierno si maschera da memoir, in parte racconto della depressione dal di dentro e storia di una guarigione, anamnesi familiare e storia culturale di come la poesia e l’arte hanno raccontato il disturbo bipolare dell’umore, riflessione sulla solitudine in cui vengono lasciate le donne (e le madri in particolare) e ancora studio di come neuroscienze, chimica e psichiatria definiscano quel labile confine tra salute e sofferenza. Un discorso che trova il suo equilibrio interiore fino al momento in cui Patierno (e Marino) scelgono di raccontare il dramma, la caduta, il tentato suicidio mettendo in mostra, evidenziando, ribadendo qualcosa di non necessario che avrebbe potuto restare armonicamente in linea con i toni allusivi e attrattivi del film anziché scivolare verso la deriva della docufiction impattante che non lascia via di scampo allo sguardo dello spettatore.