Se La isla mínima era teso a mostrare le contraddizioni di un Paese attraverso il rapporto sbilanciato tra il fuori e il dentro, tra la provincia e il centro, tra i sommersi e i salvati, questo Prigione 77 è pensato per effettuare il proprio percorso in direzione contraria pur mantenendo la stessa finalità: dal dentro di una prigione è possibile guardare fuori e comprendere l’intero Paese. Se il primo risaliva dalla foce del Guadalquivir per rivelare tutte le fragilità della nascente democrazia spagnola, creatura fragile e ancora turbata dalla fine della dittatura franchista, rimodellando i canoni di un genere come il noir attraverso una evidente ricognizione sul passato che ne esplicitava il suo valore simbolico, il secondo varca il confine della Storia, dell’immediatamente dopo, e scava nelle profondità di una prigione per rivendicare quegli ideali di giustizia e libertà che nel 1976 fecero aprire gli occhi alla Spagna appena dopo il franchismo. Tanto La isla mínima attraverso l’indagine-viaggio dei due investigatori, protagonisti di un tempo ansioso di dimenticare e incapace di rimuovere, rifletteva sulle chiusure (esistenziali, politiche, culturali) della nascente Spagna, sancendone di fatto il fallimento futuro, quanto Prigione 77 amplifica il senso di collocare nella giusta dimensione e con il giusto peso alcuni fatti che aiutano a descrivere il profondo cambiamento che avvenne nella società spagnola in un brevissimo arco temporale. Un tempo in cui tutto sembrava possibile ed era lecito credere nell’uguaglianza, nella giustizia e nella libertà.
Prison 77 di Alberto Rodríguez non è un film accomodante, non fa sconti allo spettatore, non si limita a spettacolarizzare l’iter di dannazione o salvezza dei suoi personaggi detenuti perché, pur rimanendo ancorato alle regole del genere, è capace di prendere le distanze dalla semplificazione, mostrando tutte le complessità di un cinema profondamente impegnato a scuotere le coscienze sia da un punto di vista morale, sia da un punto di vista politico-civile. Si assume tutti i rischi e le ambiguità del caso senza perdere di vista le proprie intenzioni. La vicenda del giovane Manuel (Miguel Herrán), che da giovane contabile condannato a un’esagerata pena di vent’anni di reclusione per aver sottratto una piccola quantità di denaro diventerà il leader di un movimento che unirà tutte le prigioni nella lotta per la libertà, sostenuto dal suo compagno di cella Pino (Javier Gutiérrez), è la parabola che rivela il cambiamento del diritto penitenziario e della società. Il film vuole catturare l’attimo di trasformazione della società e, come accadeva in La isla mínima, la storia particolare è specchio di quella universale. Le condizioni pessime di detenzione a La Model di Barcellona, le sofferenze dei detenuti, le loro speranze e come nacque il COPEL (Comitato Coordinatore dei Prigionieri in Lotta), movimento che riuscì a diffondersi nelle carceri di tutto lo Stato per migliorare le condizioni disumane e deplorevoli in cui vivevano i detenuti a quei tempi e dove regnava la legge del più forte, sono soltanto alcune delle direttrici inseguite. Un film sulla Storia che invoca una memoria, che dialoga con il nostro presente invitandoci a non rimanere fermi di fronte alla soglia dell’euforia e delle illusioni di cambiamento ma agire per un bene più grande, che ricorda il potere di un principio che recita più o meno così: la qualità della vita di una città si comprende a partire dalla qualità della vita delle carceri di quella città.