Il vampirismo come via di fuga: Mimì – Il principe delle tenebre, di Brando De Sica

L’idea data una decina d’anni fa, a occhio e croce nello stesso periodo in cui per la prima volta alcuni studiosi italiani hanno ipotizzato l’esistenza della tomba di Dracula in quel di Napoli: uno spunto che si ben si presta a una narrazione di genere e a una ambientazione partenopea particolarmente suggestiva e carica di mistero. Dettaglio, quest’ultimo, che Mimì  – Il principe delle tenebre di Brando De Sica ossequia con piena attenzione, muovendosi ai quattro angoli della città, di sopra e al di sotto, rinnovando tutta la magia di una terra che ha il sapore di un’eredità ancestrale (la famiglia De Sica è originaria della vicina Salerno, così come quella di Verdone, cui Brando è legato per parte di madre). In effetti, a ben vedere, l’esordio alla regia del giovane autore, già presentato con successo a Locarno e Sitges, è in larga parte una questione di appartenenza a un posto e di conflittualità diverse nell’alveo familiare: sulla carta è la storia di Mimì, appunto, orfano adottato da un pizzaiolo napoletano e disequilibrato sia nel fisico (a causa dei piedi deformi) che nell’animo, per una naturale ritrosia a uscire dal guscio della rassicurante routine quotidiana. Un giorno però, al netto degli atti di bullismo subiti dal figlio di un morente boss locale – ancora un esempio di disfunzionalità familiare – Mimì conosce Carmilla, giovane amante della notte, che lo introduce per l’appunto al mito di Dracula. E qui l’avventura decolla, tra incontri segreti e (im)possibili metamorfosi vampiriche in grado (forse) di restituire finalmente quel senso dell’esserci in un momento e un luogo.

 

 

Giocando con la memoria del cinema (forma “vampirica” per eccellenza dell’immaginario collettivo) e un tocco più intimista di chi vuol dar voce agli outsider, Brando De Sica compone così la sua personalissima fiaba gotico-campana, tra stralci di napoletanità tipica e una radicalità che non cerca compiacimenti troppo facili, impegnata com’è a mettere in scena un mondo proprio. Soprattutto, si percepisce una complicità autentica con i personaggi: il Mimì di Domenico Cuomo è una figura in perenne bilico tra romanticismo e patetismo, così come la Carmilla di Sara Ciocca è perennemente cangiante. Con le loro presenze fluttuanti, entrambi descrivono continue dicotomie: la regia li isola spesso in porzioni di spazio all’interno dei vari ambienti che attraversano, mentre la fotografia di Andrea Arnone – autentico terzo elemento del racconto – articola i suoi giochi di luce sul leitmotiv costante dei contrasti netti (a iniziare dai colori molto vivi). In questo modo, i due personaggi tarano il tono di un’opera che fino alla fine si offre come volutamente ambigua, lasciando lo spettatore nel dubbio se il racconto cui sta assistendo sia quello di una caduta o una rinascita. Una storia vampirica nell’essenza, insomma, per come pesca dal contemporaneo, guardando però al mito, “congelando” due esistenze nella lotta eterna contro la normalità e raccontando in questo modo un disagio esistenziale che dall’adolescenza si allunga all’età adulta. Non a caso, nella centralità conferita ai due protagonisti, si ritagliano comunque un certo spazio anche alcune figure di contorno, dalla prostituta trans da cui Mimì trova complicità e conforto, al padre adottivo che tenta in tutti i modi di salvare il salvabile, giocando all’interno del perimetro descritto dall’eterna diatriba fra legalità e malavita. L’unica soluzione possibile, quindi, è quella che faccia proverbialmente saltare il banco.

 

 

Per tutto questo, Mimì – Il principe delle tenebre non assomiglia a nulla di quanto si vede normalmente in giro, dentro e fuori il genere, ma persegue una originalità di sguardo a volte rivendicata in modo fin troppo insistito, alla ricerca di un codice iniziatico che lo metta in connessione con chi cerca una tipologia di horror scentrato, fra malinconia da popolo della notte e grottesco in sovraccarico. In tal senso, l’ipotesi più accattivante è che Brando cerchi un centro possibile fra le pulsioni adolescenziali e notturne che connotano il cinema dell’altro De Sica, l’Andrea di Il popolo della notte e Non mi uccidere e la tradizione della commedia incarnata tanto dallo zio Carlo Verdone quanto dal padre Christian. Un modello, quest’ultimo, in parte già centrale nelle co-regie palestra di film come Sono solo fantasmi, e che qui però appare più maturo e definito.