Head South di Jonathan Ogilvie: il post-punk neozelandese apre Rotterdam53

Coming of age post-punk, ma Londra è solo un richiamo lontano: siamo nel sud della Nuova Zelanda, a Christchurch, che del resto pare sia sempre stata una zona d’influenza inglese. Siamo nel 1979 e da un paio di anni in Inghilterra la scena è occupata da Siouxsie and the Banshees, Public Image Ltd, Joy Division, The Cure… L’eco di questa ondata arriva anche a Angus, un adolescente neozelandese, occhi azzurri, capelli lunghi, divisa scolastica, aria impacciata di chi ha voglia di vivere e cambiare ma non sa come fare. È lui il protagonista di Head South, il film di Jonathan Ogilvie che ha aperto Rotterdam53: l’imprinting è autobiografico ma il regista non cerca risonanze nostalgiche. Il film è piuttosto la narrazione di un mondo ai margini, in cui tutto ciò che accade sembra il riflesso di un altrove. L’Inghilterra e Londra stanno alla Nuova Zelanda e a Christchurch come l’eco di qualcosa che è vero e ha un senso, sicché la scena musicale di provincia che Ogilvie ricostruisce con dolcezza è lo spazio in cui tutto questo prende prima forma di sogno e poi si concretizza, magari dolorosamente, ma di sicuro come qualcosa di vero. Angus è il tipico ragazzo in bilico su una vita che gli sta stretta: a scuola i compagni vivono la loro irrequietezza col freno delle abitudini ben tirato, a casa si ritrova solo col padre mentre la madre è fuori e il fratello maggiore si è trasferito a Londra. Il record store locale è il punto di fuga di un’attrazione ancora non del tutto chiara per la musica: una band locale fa post-punk d’ispirazione inglese e sembra così figa che Angus vorrebbe suonare anche lui, magari il basso.

 

 

Ma, anche se ha tagliato i capelli molto corti, non ha né il basso né un gruppo. Il tizio del record store lo ha in simpatia e gli procura un affare e anche l’occasione di introdurre il concerto della band locale. L’unica cosa da fare è mettere su un gruppo al volo, il nome ce l’ha già e l’ha preso dal Doctor Who: i Dalek… C’è la ragazza del market che suona la chitarra e scrive testi, manca il batterista ma una batteria elettronica può fare al caso loro: serve solo il coraggio di fare una pessima figura davanti a tutta la città. Ma Angus sa che, come dice il padre, è meglio rimpiangere di aver fatto qualcosa, che rimpiangere di non averla fatta…
Nella sua semplicità, Head South è un film che costruisce uno spazio narrativo dolce e sensibile, in cui i personaggi stanno comodi e vestono agevolmente lo schema assegnatogli. Ogilvie lavora con intelligenza sul sottotesto di un mondo di provincia popolato da ombre in cerca di realtà: il padre sobriamente malinconico coi suoi appuntamenti col fantasma della nonna, la madre assente, la ragazza punk sospesa tra eroina e pusher, la band locale che spaccia come suoi dei pezzi registrati su un disco raro… Tutto contribuisce a costruire attorno al protagonista uno scenario fantasmatico e sfuggente, che aspetta solo di essere svelato ai suoi occhi e visto. La volata dolorosa del finale, che sospinge il successo del concerto nell’amarezza di un’età adulta fatta di consapevolezza, racconta proprio questo processo e consegna il film a una docile amarezza che lascia il segno.