Interseca i volumi degli interni domestici, la fluidità dell’acqua e i torbidi sentimenti familiari, Natatorium, l’opera prima islandese di Helena Stefánsdóttir presentata nel concorso Bright Future di Rotterdam53. Si tratta di un dramma psicologico proteso verso il thriller e nutrito da sensazioni da horror gotico, interamente ambientato tra le mura di una casa di famiglia, in cui aleggia il classico segreto inconfessabile. L’ombra proviene dal passato di cui non si parla e cinge l’impassibile e sorridente freddezza di una madre, Áróra, opposta all’impotente rancore del figlio Magnus e della figlia Vala e alla sofferenza di un terzo figlio, Karl, che giace malato a letto. Su tutto si agita il segreto legato alla morte di una quarta figlia, che pare riattivato dall’inattesa decisione della nipote diciottenne Ljlia, figlia di Magnus, di andare a vivere nella casa dei nonni mentre attende l’esito di un importante provino. In questo intreccio di tensioni e pulsioni recondite, il film di Helena Stefánsdóttir si muove con una limpidezza geometrica che ricorda il Greenaway della prima stagione, per la capacità di articolare cromatismi fotografici e scenografici, architetture visive e avvitamenti psicologici. Manca però l’ironia del regista inglese, ché in realtà Natatorium è piuttosto un film serrato a una forma inquieta di speculazione psicologica in cui sospinge i personaggi. La regista parla di un cinema coreografico coerente con i suoi studi e con il dichiarato debito nei confronti dell’americana Maya Deren, di cui riprende proprio la capacità di creare uno spazio scenico e visivo allo stesso tempo concreto e astratto, dove lasciar muovere i personaggi.
L’incipit del film, articolato in una dimensionalità ambientale puramente visiva e evidentemente digitale, dispone la percezione dello spettatore verso un rapporto immateriale con la realtà in cui sarà calato il dramma. E il film infatti si spinge poi in una tensione tutta mentale, legata all’algida ossessione della madre per l’asfissia acquatica: nella piscina costruita come un tempio nel seminterrato, infatti, la donna replica un rituale di immersione e annegamento, che sta tra l’inversione del parto e il battesimo al contrario. Qualcosa legato alla nascita da reiterare e negare, di cui è stata vittima la figlia morta mentre ora ne è partecipe il povero Karl e rischia di ricadere anche sulla nipote. La quale non conosce il segreto di famiglia legato a quella piscina ed è attratta dalle maniere accondiscendenti della nonna. Helena Stefánsdóttir gestisce questo grumo di ossessioni con eleganza e sobrietà, incidendo la superficie visiva del suo film, dotata di una plastica tensione luminosa e cromatica, per lasciare fluire il magma torbido delle pulsioni psicologiche. La scrittura dei personaggi è un po’ troppo esposta e non riesce sempre a stare dietro alle ambizioni drammaturgiche di un’opera che vorrebbe raggiungere il suo pubblico seguendo più la traccia visuale che la strada narrativa. Ma al film non manca una certa capacità ipnotica, enfatizzata nel finale destinato a galleggiare nello spazio segreto della piscina: drowning by family…