Napoli, 1950. La macchina da presa vola sul mare, seguendo l’arrivo a Posillipo di una chiatta che trasporta una carrozza regale, dono del Comandante – un armatore disegnato sulla figura di Achille Lauro, sindaco di Napoli populista e ambiguo nella metà degli anni Cinquanta – a un suo amico-collaboratore in procinto di avere una figlia. La carrozza sarà il letto da fiaba di quella bambina destinata a nascere in mare, a portare il nome antico della sua città, a vivere in sé e con sé quella città e quel mare, con la loro bellezza sfacciata segnata da un’invisibile ruga di ineluttabilità, aperta al mistero e alla tragedia. Parthenope è bella, anzi bellissima. Nel 1968 attraversa Napoli guardandosi intorno e facendosi guardare. La giovinezza è un dono, un’esperienza mitica e mistica e Parthenope vuole gustarla fino in fondo. Ma il presente porta in sé già le impronte del futuro che incombe e un’estate luminosa e suadente in una Capri da sogno si trasforma in emblema nostalgico in tempo reale. Parthenope, come le dice lo scrittore John Cheever (Gary Oldman) in vacanza alcolica sull’isola, non deve sprecare neanche un minuto della sua giovinezza, deve cogliere l’attimo prima che il tempo trasformi tutto in rimpianto. Un’estate languida in cui il triangolo formato da Parthenope, dal fratello Raimondo e dall’amico Sandrino, innamorati di lei da sempre e per sempre, sembrano essere una geometria sentimentale perfetta, un inno al diritto rivendicato alla felicità.
E invece “era già tutto previsto”, come canta Riccardo Cocciante in un momento sospeso vissuto a una festa caprese, la tragedia è in agguato e la vita di Parthenope dovrà cercare nuove strade per andare avanti. La ragazza (e la sua bellezza) prova altre strade: lo studio di antropologia culturale all’università con il filosofico professor Marotta (un magnifico Silvio Orlando), la tentazione per la recitazione, quasi ad assecondare quella perfezione fisica che quasi la costringe a esporsi; ancora l’università e poi uno scandaglio nelle budella di una Napoli misterica e viscerale, umorale e multiforme. I vicoli e le puttane, il clero e la camorra, i miracoli sospesi tra il sacro e il profano, l’inafferrabile natura del bello: tutto sembra dipanarsi davanti agli occhi cristallini di Parthenope che, come le dice il professor Marotta, deve imparare a “vedere” per capire l’antropologia e quindi il mondo. Paolo Sorrentino accompagna la sua protagonista lungo tutto l’arco della sua esistenza, dalla nascita al ritorno a casa – ai giorni nostri, dopo anni di vita ripensata e ricostruita al Nord – dove assiste a un’altra manifestazione di una sorta di miracolo terreno, sfilacciando la trama, saltando errabondo da un momento a un altro, da un episodio a un altro, da un personaggio a un altro. La narrazione è estatica, priva di una metrica convenzionale, appoggiata al ritmo e al richiamo dei ricordi, delle emozioni, di una mistica nostalgia. Sorrentino mette in bocca ai suoi personaggi frasi brevi e studiatissime, poetiche fino al parossismo, costruendo un linguaggio anti-naturalista che raddoppia la liberissima sintassi delle immagini. Parthenope è un film in perenne movimento, che scarta e si incarta, si arrotola e affonda, corre e poi si ferma, proprio come la sua protagonista, che ha il corpo e il volto della quasi esordiente Celeste Della Porta, di una bellezza abbacinante e magnetica. E la sua grande bellezza rivela quella sotterranea della città di cui porta il nome, a volte più difficile da cogliere a prima vista perché Napoli, come ha detto Sorrentino, è “indefinibile”.
Parthenope (in concorso a Cannes77) parla di corpi sublimati e di anime terrene, si incanta alla luce del sole e ai riflessi del mare, al buio delle notti e agli odori delle strade. È un film destinato a dividere: in un certo senso speculare a È stata la mano di Dio, Parthenope è più errabondo, impervio, barocco, consapevolmente ellittico. La nostalgia autobiografica e personale del film precedente qui diventa oggettiva, assume un carattere universale e simbolico. Sorrentino affida a quella ragazza che ha il nome di una sirena, cuore del mito della fondazione di Napoli, il peso di rappresentare – con i suoi sguardi in macchina, i suoi sorrisi abbozzati, il suo continuo desiderare ed essere desiderata, le sue risposte taglienti e i suoi più frequenti silenzi – la costruzione di un altro mito: quello della giovinezza come istante da perdere e da rimpiangere per sempre; dell’idea di una bellezza che possa superare e trascendere le caducità e le brutture; della capacità di un testardo abbandono allo stupore per il mondo – sì, alla fine Parthenope imparerà a “vedere” – assaporato sempre come fosse la prima volta e poi destinato a cristallizzarsi nel ricordo. Il miraggio idealizzato del tempo ormai passato – un passato a cui tornare con struggente malinconia nella certezza che la felicità dura un attimo e poi la si possa vedere solo voltandosi all’indietro; un passato segnato dal gusto agrodolce del ricordo piuttosto che da quello acre del rimpianto – il cuore sentimentale del film, il suo intimo metronomo emotivo.