Di vino, di terra e di paura: a Locarno77 Fogo do vento di Marta Mateus

Storia di vino e di uva, storia di terra e di cielo, storia di ardimento e di paura. Storia antica, dopotutto, quella che Marta Mateus racconta in Fogo do vento (in Concorso a Locarno77), scritta col sangue di una vergine, che bagna la gleba e macchia il vitigno potato da mani esperte. Siamo in Alentejo, nel Portogallo meridionale, terra di megaliti, di popolazione rada, di invasioni e scorribande, che ha conosciuto la Storia e che la Storia conosce. Scenario archetipale di una materia atavica, che Marta Mateus lascia trascorrere dalle memorie agrarie post rivoluzione dei garofani evocate nel suo cortometraggio Farpões Baldios (visto alla Quinzaine 2017). Fogo do vento è se possibile ancor più arcaico nella sua pulsionalità simbolica, tutto un dialogo tra gesti antichi e epifanie dell’esistere che si spingono all’indietro, come a riavvolgere il nastro dell’umanità. La mano ferita della giovane contadina lascia cadere gocce di sangue che irrorano il vitigno e nutrono l’allegoria dell’antica lotta tra l’Uomo e il suo destino: un nero toro sbuffa tra le zolle, lascia a terra un vecchio contadino, bracca gli altri che nel frattempo hanno trovato rifugio tra i rami di antiche querce. Prigionieri di un tempo di paura che li riporta alla condizione originaria dell’uomo, costretto a vivere sugli alberi per trovare riparo in un mondo minaccioso, i contadini languiscono in un tempo che straripa dalle loro stanche coscienze.

 

 

Ci si incolpa, ci si aiuta, si condivide un tozzo di pane, mentre il tempo narra di nuovo i suoi trascorsi e il passato diventa una tela su cui narrare la storia di quella terra. Fogo do vento tiene in sé la materia eterna di un filmare il sangue della vita e della storia con coscienza straubiana, insistendo in libertà assoluta sulla medesima lunghezza d’onda temporale di Pedro Costa (che produce) e sul ribollire di un sentimento poetico sobrio, su un lirismo introflesso, che si nega a se stesso ma poi si concede a profondità pittoriche sorprendenti. Il verseggiare dei dialoghi, affidati alla dizione scandita dei contadini innestati nel corpo filmico, è il dono profetico di questo film che ha fatto i conti con le paure del tempo da Covid in cui s’è ritrovato sospeso. Vi si racconta con limpidezza il peso di una minaccia alla quale bisogna concedersi, la narrazione di una paura alla quale bisogna affidarsi per trovare il proprio posto nell’ordine delle cose. Parlando del suo film, Marta Mateus cita il principio diabolico che mira a demolire ogni arte di cui parla Bresson nelle sue Note sul cinematografo. Un principio che forse non è del tutto avverso al cinema: il diavolo probabilmente…

 

 

Fogo do vento sul sito di Locarno77