A Venezia81 la caccia all’uomo per il destino dell’America in The Order, di Justin Kurzel

Andando alle origini dei movimenti ultraconservatori americani, il libro inchiesta The Silent Brotherhood di Kevin Flynn sollevava nel 1989 il velo sul più pericolo gruppo terrorista americano basato su teorie neonaziste e di radicalismo di destra. A quel volume si ispira Justin Kurzel per la sua nuova opera, The Order, presentata in concorso a Venezia81. Protagonista è Terry Husk (un rude e convincente Jude Law), agente dell’FBI e specialista nella lotta a organizzazioni paramilitari e malavitose, che individua nella cittadina di Coeur d’Alene, in Idaho, il cuore delle azioni di una nascente cellula ultra radicale, derivata da una congrega neonazista già nell’occhio dalle autorità, ma considerata ancora relativamente innocua. L’escalation delle azioni portate avanti dall’Ordine e dal suo leader Robert Matthews, attraverso una serie di rapine per realizzare il suo piano eversivo, porterà a un’autentica caccia all’uomo. Pur raccontando un fatto reale, Kurzel adotta un taglio epico che immerge l’azione negli scenari boschivi della provincia americana, in un tentativo di mediazione fra una pulsione predatoria innata e il radicalismo che ne distorce i fini. Così, Husk è un cacciatore ostinato e ossessivo nella sua ricerca dei terroristi. Sebbene abbia un passato poco definito alle spalle, si comprende come abbia pagato le conseguenze del suo carattere, fra una famiglia con cui è in perenne attesa di ricomponimento e una cicatrice sul petto da intervento a cuore aperto. Dall’altro versante, Matthews è invece un figlio che rifiuta le autorità paterne, ha rotto con il prete neonazista di cui pure segue le dottrine e coltiva l’incertezza di un contesto familiare portando avanti due relazioni per potere avere degli eredi.

 

 

In pratica un padre mancato e un figlio irrisolto su cui il film innesta una relazione di rispecchiamento e distanza tarata sulla propulsione dell’ostinazione ossessiva, come un Van Helsing e un Dracula che si nutrono di chi sta loro intorno pur di portare a termine le rispettive missioni – e Husk avrà la sua catarsi proprio in una scena particolarmente sanguinolenta mentre tenterà di soccorrere un collega. Non stupisce in questo senso la natura panica del racconto, data l’origine australiana di Kurzel, proveniente dunque da una cinematografia che da sempre è attenta a mantenere la focalizzazione dei personaggi nel loro contesto: spazi e ambienti “parlano” più dei dialoghi, determinando in senso espressivo il livello dello scontro, tra la sintesi del racconto western e il barocchismo di una certa epica americana. Una pulsione noir che può far venire in mente le epopee di un Michael Cimino (citato esplicitamente e in maniera anche un po’ gratuita) o un Michael Mann. Il finale incendiario riesce in tal senso a portare al parossismo un dramma realmente mai consumato – la storia è nota, Matthews per fortuna non è mai riuscito a portare a termine il suo piano – ma che allunga le sue conseguenze sul nostro presente. La dottrina dei sei passi su cui si basava il piano dell’Ordine riecheggia infatti in molti degli eventi razzisti e suprematisti che arrivano fino ai giorni nostri, come le didascalie finali correttamente ricordano. In questo senso un racconto abbastanza classico nel suo impianto, riesce a fornire qualche ulteriore spunto di modernità.