Kris Kristofferson: il figlio di un generale non piange mai

Kris Kristofferson ha bussato ai cancelli del cielo lo scorso 28 settembre. Gli hanno aperto subito, ne sono certo. Nei coccodrilli successivi alla sua scomparsa ho notato che in pochi hanno ricordato la sua laurea in letteratura inglese a Oxford (non Oxford Mississippi, ma Inghilterra). Gli piaceva studiare, scrivere poesie, sognava i romanzi, si è realizzato con le canzoni, peraltro tutte o quasi con testi magnifici (di sicuro tutte quelle del suo primo album Kristofferson, 1970). Mica male per un ragazzo che tornato negli Stati Uniti dal Regno Unito si arruola nella U.S Air Force dove diventa pilota di elicotteri. Era scritto. Figlio di un generale dell’aviazione americana, cresciuto con disciplina militare, Kris non si sottrae alla volontà della famiglia e dopo studi importanti e una carriera sportiva parallela (nel più british degli sport, il rugby) diventa un soldato. Si congederà nel 1965 con il grado di capitano, mentre dal Vietnam i venti di guerra soffiano sempre più impetuosi. Come noto, negli anni 70, nonostante il primo disco contenga una canzone pro guerra (Vietnam Blues), Kristofferson diventa un militante di cause socialiste come quelle dei farmer e un pacifista convinto (come tanti soldati o reduci di allora, pensate alla parabola di Oliver Stone che nel ‘Nam ci ha combattuto sul serio). In particolare, durante la prima Guerra del Golfo la sua opposizione si fa molto rumorosa, cercando di sovvertire il luogo comune che vorrebbe il mondo del country conservatore quando non reazionario. (In apertura una immagine tratta da Alice non abita più qui di Martin Scorsese).

 

Pat Garrett e Billy Kid (1973) di Sam Peckinpah

 

Anche le scelte cinematografiche sembrano politiche. Il Billy the Kid di Sam Peckinpah, per il quale si taglia la barba per apparire più giovane, è il punto di contatto tra il suo anarchismo socialisteggiante (la terra è di tutti e i recinti della proprietà privata vanno abbattuti) e quello individualista dello zio Sam, che pensa soprattutto al Kid “bandito”. Il risultato è comunque il capolavoro che tutti conosciamo (Pat Garrett e Billy the Kid, 1973). Per non parlare di I cancelli del cielo di Michael Cimino (1980). Ho una teoria, già espressa altrove, che cioè il suo James Averill sia lo sceriffo che avrebbe dovuto (e credo sinceramente anche voluto) essere Pat Garrett. Un uomo che tra giustizia e legge, sceglie la giustizia. La differenza è che Garrett viene dallo stesso milieu del Kid, quindi ha tradito se stesso (a chi spara, nello specchio?), mentre Averill, figura monumentale del cinema novecentesco, ha tradito la sua classe di appartenenza, i borghesi capitalisti, i Chisum che sigillano la storia (con la maiuscola). Non tanti ruoli, per Kristofferson, ma tutti bellissimi, anche il boss criminale di Payback – La rivincita di Porter di Brian Helgeland (1990) per citarne uno che si vorrebbe di “serie B”. E poi, ovvio, Alice non abita più qui di Martin Scorsese (1974), Convoy ancora con Peckinpah (1978) e il grande successo di A Star is Born versione Barbra Streisand (1976).

 

I cancelli del cielo (1980) di Michael Cimino

 

Torniamo alla musica, però. Da Kristofferson, l’album, partono scintille: Me and Bobbie McGee la coverizza Janis Joplin facendola sua, un po’ come qualche anno dopo Patti Smith con Because the Night di Springsteen. La Bobbie di Kris, una ragazza, diventa il Bobby di Janis. E Johnny Cash riempie le setlist della sua versione di Sunday Mornin’ Comin’ Down, altro classicone del Nostro (forse in Usa è il pezzo più amato). Il disco, acustico, è stato rimasterizzato nel 2001 con l’aggiunta di qualche bella bonus track, è super consigliato. Ma c’è un altro album imperdibile, Full Moon del 1973 registrato con Rita Coolidge, grande storia d’amore la loro, e grande intesa musicale. A Song I Like to Sing, che ha accenni caraibici, diventa una hit anche se il brano forse migliore, premiato con il Grammy, è From the Bottle to the Bottom. La bottiglia, già. Sarà, di Kristofferson, compagna per gran parte della vita. Lui non nasconde i suoi problemi di alcolismo, a riprova di una onestà nei confronti del suo pubblico mai venuta meno, fino agli ultimi tour degli anni 10, quando terminava gli show con una canzone che dice, nella prima strofa: «Thank you for a life that I’d call happy».