La grande scommessa. Il non sense della finanza

static1.squarespaceSono due gli ostacoli con cui si è voluto confrontare il regista Adam McKay nel suo La grande scommessa. Portare sul grande schermo il saggio di Michael Lewis The Big Short – Il grande scoperto e trasformare una trattazione tecnica dell’alta finanza statunitense in un racconto teso, ben giostrato, in cui emerge la coralità dell’azione e la solitudine dell’intuizione. La scommessa del titolo, infatti, è quella contro il sistema messa a segno da alcuni analisti finanziari, banchieri, giovani speculatori e vecchi geni di Wall Street che, ognuno a modo suo, scoprono le incongruenze del mercato immobiliare americano, considerato il settore più solido dell’intera economia. Senza soffermarsi esclusivamente sui tecnicismi inafferrabili, McKay prende dei personaggi reali, in una storia reale, e ne fa un affresco ampio, dove, però, tutti i punti sono facilmente riconducibili al discorso di partenza e alla tesi finale. Niente tecnicismi fini a se stessi, niente virtuosismi di parole e immagini, ma un approccio lucido, chirurgico, di scomponimento e ricostruzione minuta dei fatti attraverso la loro amplificazione. Perché tutti i personaggi coinvolti si muovono attorno allo stesso punto: dimostrare che il mercato della casa sta crollando per via della corsa al denaro facile da parte di banche e operatori finanziari, che hanno concesso mutui senza controlli, finanziando e rifinanziando gli stessi prestiti e vendendo pacchetti azionari di nessun valore.

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Basta scoprire l’anello debole di una catena per scommettere contro un intero sistema consolidato e fare miliardi. È quello che pensano e fanno tutti. E facendolo lo spiegano allo spettatore attraverso siparietti che sarebbero esilaranti se non fossero raggelati dall’oggetto e dal ritmo veloce, che non lascia spazio al riso. Come fosse una commedia demenziale (e infatti McKay ha una solida esperienza in campo, come collaboratore di Will Ferrell e del Saturday Night Live, e regista di film come Fratellastri a 40 anni, Poliziotti di riserva, Anchorman) cui viene abilmente sottratto l’effetto non sense. Perché è tutto vero e tutto folle. E così lo sguardo in macchina dei diversi “attori” permette allo spettatore di entrare letteralmente nei meccanismi contorti e di apprendere in modo semplice come sono andate le cose, con la più banale delle leggi secondo cui ogni gesto, non solo produce un effetto, ma ha delle conseguenze nel tempo e nello spazio. Al posto del ghigno soddisfatto, ci resta, così, il suo esatto opposto. L’amara consapevolezza di essere complici o spettatori della catastrofe economica. Con un colpo da maestro, McKay evita ogni tipo di retorica, al punto che i suoi “guerrieri senza macchia”, i cosiddetti sabotatori del sistema finiscono per trarre profitto da un evento che toglierà casa e lavoro a migliaia di persone, come raccontava con efficacia due anni fa 99 Homes, diretto da Ramin Bahrani e scritto con Amir Naderi, ma mai uscito in Italia. Il tocco geniale è stato saper evitare il documentarismo squadrato, prediligendo la finzione impertinente, l’artificio della forma, dei trucchi, della recitazione. Contaminando i linguaggi per un cinema onnivoro e cinefilo.