Una giovane donna giace plastica in un lago di sangue, il vestito blu acceso, una bianchissima luce sparata, i lampi di un flash. Jesse è appena arrivata a Los Angeles, il sogno di successo racchiuso negli occhioni limpidi e in una cascata di riccioli biondi, le macabre fotografie che potrebbero aiutarla a sfondare nel mondo della moda. Jesse ha il potere di conquistare istantaneamente chiunque venga a contatto con lei: il dono della bellezza assoluta che non accetta rifiuti e basta a se stessa. The Neon Demon, ultimo lavoro di Nicolas Winding Refn, è un saggio stilizzato sull’apparenza, una riflessione (e una visualizzazione) astratta su quanto la superficie nasconda e contenga l’essenza ultima delle cose. Il film di Refn è un frullato di suggestioni estetiche e sonore e di rimandi cinematografici (Mario Bava, Brian De Palma, David Lynch) che consapevolmente rifiuta lo psicologismo dei personaggi, accettando anche il rischio di mettere in scena delle figurine senz’anima. Jesse – interpretata con spavalderia dalla brava Elle Fanning – è una principessa Disney catapultata in un mondo di plastica con un potere immenso, quello della bellezza. Che non è solo questione di aspetto fisico – quella ricerca patologica di perfezione a cui tendono, by any means necessary, tutte le giovani donne del film– ma di una capacità seduttiva che ha qualcosa di trascendentale, quasi mistico. Incarna ciò a cui tutti i personaggi aspirano, suscitando invidia e desiderio, e da cui sono tenuti a distanza: il rifiuto trascende nella necrofilia, la privazione di bellezza è un fardello insopportabile, la vendetta diventa la feroce riappropriazione di un sogno.
Refn costruisce un horror inizialmente senza orrore, un film in cui la narrazione è un accessorio, un pretesto per mettere in scena un concetto luccicante e bidimensionale. La confezione è elegantissima, il ritmo rallentato, i colori saturi. Un’opera estetizzante – levigata ed epidermica, lussureggiante e geometrica – sul culto dell’estetica, in cui forma e contenuto coincidono perfettamente. Refn non smarrisce lo spettatore in un labirinto mentale, come Lynch in Mulholland Drive, a cui rimandano molti momenti losangelini, ma lo espone a un’overdose di immagini, luci, musiche (la colonna sonora di Cliff Martinez è un raddoppio sincopato delle immagini). La tendenza all’astrazione, alla contemplazione estatica, del resto è da sempre cifra stilistica di Refn – non solo nell’ultimo, ingiustamente bistrattato Solo Dio perdona, ma già nelle sequenze oniriche di Bronson, nel misticismo muscolare di Valhalla Rising, nelle esplosioni di violenza di Drive–e in The Neon Demon la scelta si fa estrema. La rinuncia a qualsiasi approfondimento, la ripetizione ipnotica di situazioni, la quasi totale assenza di trama, sono scelte fatte in nome del trionfo del visivo, del sonoro, quasi del tattile. The Neon Demon è un film da sfogliare, in un certo senso da subire, che seduce per il suo formalismo estremista e che spiazza con la sua ostentata vuotezza: carrelli lentissimi, illuminazioni estreme, tanti neon, giovani corpi esposti come icone. Tra sapori faustiani e la nerissima ironia gore del finale, Refn ha costruito un catalogo sulla mitologia del bello. E lo ha fatto, piaccia o non piaccia, con gli strumenti purissimi del cinema.