Riscoprire il cinema di Luigi Comencini, sull’onda del successo di Il tempo che ci vuole, il film della figlia Francesca che lo vede protagonista quasi assoluto, con il volto e le movenze lente di Fabrizio Gifuni, significa anche riscoprire il suo lavoro per la televisione. Il regista lombardo fu autore eclettico e curioso e l’inchiesta in sei episodi I bambini e noi ebbe tempi di realizzazione e di messa in onda sulle reti RAI dell’epoca abbastanza dilatati. Realizzato nel 1970, andò in onda nel 1978 e fu l’occasione per il regista dopo otto anni dai suoi set di tornare su alcuni dei luoghi per ritrovare, cresciuti in età e sentimenti, i suoi giovanissimi protagonisti. Era un modo interventista di fare televisione con i realizzatori sul campo, un format che oggi resta solo per gli inviati di guerra o casi simili. Comencini fu un grande osservatore del mondo dei bambini e la sua filmografia è piena di film dedicati allo sguardo dell’infanzia, coronato con il suo Pinocchio che oggi resta ancora insuperato in termini di fantasia visiva e affezione popolare contro ogni altra fredda elucubrazione che stravolga la forza didattica e formativa del testo. I bambini e noi altra tappa fondamentale del regista lombardo, rappresenta uno studio accorato e gentile, misurato, ma anche coraggioso del mondo di un’infanzia che all’epoca restava ancora pianeta in parte sconosciuto, utilizzato dalle condizioni sociali ed economiche come forza lavoro illegale e poco adatto a diventare protagonista di un pensiero diverso, covato e non detto come molti di quei silenzi che punteggiano i sei episodi dell’inchiesta, visibile oggi su RaiPlay.
La fatica, Educati e gentili, Tante case, La bicicletta, Papà lavora e Qualcosa di nuovo sono i titoli delle sei parti in cui è divisa l’opera che ha i caratteri di una indagine sentimentale sul mondo dell’infanzia, con uno sguardo alla sociologia degli ambienti in un’Italia che stava ancora completando il processo di industrializzazione in quella delicata fase in cui si transitava dalla cultura contadina, ormai quasi un ricordo e una suggestione pasoliniana e olmiana, ad un’Italia dello sviluppo, che non era il boom ma che avrebbe comunque piazzato il nostro Paese – nonostante tutto – tra quelle che si dicono le sette grandi potenze mondiali. Qualche dubbio in verità nasce guardando queste immagini, ma pare sia così! Da sud a nord e viceversa il cammino di Comencini, vero e non solo ideale, testimoniato dalla macchina da presa al seguito con quel cordone ombelicale che lo lega al microfono, la sua arma insieme alle immagini, ci porta in giro per l’Italia da Napoli a Torino, dall’Umbria contadina delle valli alla solare e desertica Puglia, e dalle sconfinate terre incolte della Basilicata ai salotti della Milano di via della Spiga. La cinepresa di Comencini racconta i sentimenti dei bambini, i loro piccoli e nascosti dolori, i segreti sentimenti, le inespresse paure. Bambini differenti, quelli con la r arrotata, quelli che invece non sanno nemmeno parlare, quelli che per vivere devono lavorare e a mezzogiorno mangiare un pane più grande di loro e quelli che invece vivono negli agi di un quartiere opulento mentre a pochissimi chilometri da lì crescevano le coree degli emigrati. Milano, Torino, Napoli diventano città emblema di una trasformazione sociale, di una sorta di frenesia che avvolgeva il paese, quella stessa trattenuta della giovane universitaria, nel salotto buono della nobiltà milanese, che contestava il padre e i suoi atteggiamenti.
Quanto non detto in quelle espressioni! Comencini lavora su questi dettagli, sui silenzi dei suoi giovani attori sulle tristezze che si disegnano sui visi e nei sorrisi quasi spenti quando parlano dei padri lontani che lavorano in Germania, che per loro è davvero solo un’entità geografica. Ma ci sono anche i ribelli, i Franti dell’oggi senza alcuna infamia, ma frutto di un adattarsi, di uno strisciante desiderio di leadership diremmo oggi. In questa congerie di illegalità e tradizioni, di piccole paure o fantasiosi desideri come quelli per moltissimi di immaginare il loro futuro come calciatore, si muove la ricerca del regista. Un lavoro davvero sentito quello di Comencini attento e sempre altruista, lo si intende da una certa radicalità che lo anima, dalla logica che lo sorregge e dalla consequenzialità che si avverte in quel dialogo ininterrotto tra lui e i bambini così tanto frequenti nelle sue immagini e nelle sue storie. E quante storie si attraversano guardando le circa sei ore dell’inchiesta storie raccontate o lasciate a metà, storie che si leggono tra le righe di quelle parole pronunciate dai ragazzini e dalle ragazzine con quei fiocchi troppo grandi per le loro età. Storie di lavoro e di benessere (poche in verità), storie di lontananza e anche un po’ di solitudine. In quelle scuole frequentatissime o in quelle dove sette alunni di classi differenti stanno tutti insieme attorno al maestro che sembra il maestro Albino Bernardini di Diario di un maestro di De Seta e si cita Don Milani e il suo radicale approccio ad una scuola fatta di esperienze, senza voti e senza promozioni, e gli immigrati calabresi, siciliani e pugliesi non lo sanno quando a Torino, in uno dei tanti ghetti per meridionali fuoriusciti dalle insalubri cantine o soffitte, lottano per una scuola senza promozioni o bocciature. Oppure quando si coglie il suo disappunto per le classi differenziali, un’altra ghettizzazione di una diversità caratteriale e comportamentale che finisce per danneggiare i giovani studenti incapaci a quel modo di integrarsi con ciò che non è disadattamento.
Un lungo e complesso discorso quello che Comencini affronta sulla scuola, forse del tutto impreparata come istituzione, a ribaltare il senso della sua stessa finalità. Un tema che ancora oggi tocca da vicino i suoi protagonisti e che non riesce a trovare adeguata soluzione tra vecchiume che non scompare e rinnovamento annunciato, ma più di facciata che effettivo. Quel vecchiume che sembra scomparire nell’ultimo episodio, interamente dedicato ad una scuola elementare di Torino dove si sperimentavano, con l’ausilio determinante di un Direttore di scuola entusiasta e finalmente dai larghi orizzonti, i nuovi percorsi didattici. Osserviamo le differenze tra questi bambini, indubbiamente più fortunati e gli altri, con l’esempio del bambino che viene da Brindisi che racconta di come per lui la lingua italiana era sconosciuta e invece più parla, più trova le parole. Qualche anno dopo Comencini avrebbe girato la sua versione di Pinocchio e guardando queste sei ore di lavoro si capisce bene il perché e perché lo affascinava la mutazione da burattino ad essere pensante. Sì la scoperta di questa indagine è quella di esaltare il pensiero dei bambini che non sono piccoli uomini, ma persone di età inferiore con un loro mondo e un loro pensiero e Comencini, come Socrate, sapeva tirare fuori dal loro animo ogni emozione e ogni sguardo furtivo a quel futuro che non sapevano immaginare.