L’apoteosi del mucchio selvaggio: su Sky Grande e maledetta, la Lazio del ’74

Una premessa è necessaria: questa recensione non è una recensione. È qualcosa che interroga una parte di me, povero critico, e che Massimo Rota, quando mi ha chiesto di scriverne, sapeva di smuovere. Questa è una faticosa messa allo specchio. L’asticella che non è possibile alzare. Messa da parte, con fatica, la componente emotiva – che mai come in questo caso è il “nocciolo della questione” – cerco di analizzare con visione raffreddata quello che è la serie Sky Grande e maledetta, la Lazio del ’74 (ideata da Stefano De Grandis, diretta da Massimo Bomprezzi e Andrea Parini con la collaborazione editoriale di Guy Chiappaventi, forse il principale cantore di quel calcio laziale ormai quasi estinto, come dimostrano i suoi magnifici libri). Una serie commovente ed esaustiva, nonostante le limitazioni e i compromessi che fan parte del lavoro giornalistico (la chiusura con Lotito su tutto). Per un tifoso – per un malato di tifo, che ha passato i weekend della sua adolescenza su pullman fetidi in partenza per oscure destinazioni adriatiche – questa serie è, allo stesso tempo, un monumento e una giustificazione. Un obelisco e una bara. Lo scudetto della Lazio del 1974 resta un affare di uomini, un mistero, un qualcosa che non può avere – come Paganini – una replica. Mi scuseranno i tifosi del Verona Calcio che una decina di anni dopo hanno realizzato l’ultimo (e purtroppo irripetibile) scudetto antisistema. Ma la Lazio del 1974 è stata un’altra cosa. La Lazio del 1974 è stata la realizzazione, nel bene e nel male, dei dettami di Sparta. Un manipolo di uomini, non tutti rispettabili, che hanno deciso di scegliere una causa, una maglia, una bandiera. Ma veniamo alla serie, che è meglio, altrimenti perdo il filo nella nebbia offuscante dei ricordi.

 

 

Atto I: l’ascesa

Grande e maledetta, la Lazio del ’74 approfitta della divisione in tre atti – tre puntate – per seguire un filo narrativo ben preciso. La prima puntata si concentra sull’irresistibile ascesa di una squadra venuta dalla serie B (e comandata da un allenatore stimato e retrocesso) fino al terzo posto in classifica, con lo scudetto in bilico fino all’ultima giornata, messo in scena da una banda di pazzi. Perché quello è il fine ultimo del racconto, la sua peculiarità narrativa: la Lazio degli anni Settanta era gestita da un manipolo di calciatori impossibili, fieramente rivali e implacabilmente nemici, capaci di trasformarsi in una banda di pirati invincibili nelle partite domenicali, quelle che contano. La Lazio di Tommaso Maestrelli è stata un esempio di ribellione ai poteri del Nord – tra lo scudetto della Lazio e quello della Roma del 1982-83 esistono solo Torino e Milano, Milano e Torino – e l’esplosione di una manica di scugnizzi che segnavano goal e si allenavano con le pistole: era un qualcosa di inaccettabile per il potere calcistico e politicamente assennato di uno status quo intoccabile. La prima puntata della serie Sky accarezza le divisioni interne di una squadra immarcescibilmente squilibrata per coglierne i punti di forza: le divisioni interne – spogliatoi separati, partitelle di allenamento condite da calcioni e offese – come forma di innalzamento del collettivo. La struttura del reportage è classica: interviste e repertorio, repertorio e interviste. Quello che fa la differenza è l’orgoglio irriducibile dei testimoni dell’epoca: mai negare, sempre fortificarsi nel narrare la verità.

 

 

Atto II: il contesto

In cosa la Lazio – quella Lazio – è stata però un oggetto alieno non identificabile? Nella sua inafferrabilità, nella reazione ai codici, con strumenti forse inaccettabili – certo discutibili – ma non adeguabili ai comportamenti canonici del tempo che ha vissuto. La seconda puntata della serie esplora il contesto: il Referendum sul divorzio (vinto da un piccolo partito e da una piccola associazione contro i soliti potentati politici, proprio come la Lazio contro le solite Juve, Inter, Milan), le elezioni politiche, l’ascesa di un clima che sarebbe presto sfociato negli anni di piombo. La Lazio, squadra di emigrati, di marginali e di scappati di casa, a suo modo corrisponde alla sua epoca. È una squadra contemporanea. Le posizioni politiche variegate, l’estrazione proletaria dei suoi maggiori protagonisti, un internazionalismo di facciata rappresentato dall’immigrato di ritorno Chinaglia o dal mezzo inglese Wilson: tutto tendeva a rendere questo gruppo male assortito un esempio anomalo della nostra società. Sparavano, sì sparavano. Ai lampioni e ai compagni di squadra più giovani per determinare territori di potere e di influenza. Erano figli del loro tempo brutto i laziali del 1974. Sporchi e determinati, separati in clan e luoghi intoccabili, inafferrabili persino dai compagni che sceglievano amicizie diverse. Ma sapevano la forza del gruppo, conoscevano e rispettavano il valore quasi militare di un esercito in guerra contro tutto e contro tutti, governato da un allenatore padre che è – e sempre rimarrà, anche negli attuali cori da stadio – il primo protagonista di questa vicenda.

 

 

Atto III – Il lutto

Ma che cosa è, in fondo, questa serie tv bella e maledetta, che ammicca alla grandezza e si sostiene sul lutto? È principalmente un confessionale di ricordi che via via si spengono nel destino funereo di quel gruppo. Da una parte – filo conduttore dell’intera narrazione – ci sono i sopravvissuti: Petrelli, Martini, Oddi, Nanni (con l’assenza di Garlaschelli e la presenza dei comprimari Lopez e Badiani e con Giordano, protagonista inverso negli anni a seguire, come special guest), sillabe interrotte di una formazione-filastrocca che tutti i laziali sanno a memoria. E poi ci sono i fantasmi, protagonisti dell’ultima puntata. Wilson e Chinaglia, inseparabili leader alleati fautori di una faida interna; Pulici, D’Amico, Frustalupi – sottovalutato ora nei ricordi principali come fu sottovalutato allora come illuminante giocatore – e Re Cecconi con la sua fine simbolica. La Lazio del 1974 è una squadra che disegna una metafora. Che ha saputo chiudere in sé lo spirito del tempo, una zeitgeist che ancora oggi è dura a morire. Che ha unito socialisti e missini, democristiani e apolitici. Uniti nel culto della divisione per raggiungere un’unità; rappresentanti quasi impalpabili di un “uno per tutti, tutti per uno” ormai così irriconoscibile nello sport odierno. La Lazio del 1974 è una squadra di incoscienti che è stata capace di realizzarsi in maniera inconsapevole, quasi casuale; guidata da una persona mite, Tommaso Maestrelli, che è, come ho già detto, il vero protagonista invisibile di questo racconto, un uomo-padre come non ne esistono più, non un semplice allenatore, un nome ancora capace di far bagnare le ciglia di durissimi quasi ottantenni. E negli occhi dei sopravvissuti – pochi – si riesce a leggere un orgoglio che poco ha a che spartire con le odierne direttive del calcio. Chi è ancora vivo si chiede perché lo è; chi è morto si consola al pensiero che i due grandi campioni dell’epoca, Chinaglia e Wilson, giacciono nella cappella di famiglia del loro allenatore, cosa unica e impensabile nei barlumi di questa nostra modernità sportiva. Tra i tanti intervistati (i compagni ancora vivi, gli amici tennisti, i figli – di Maestrelli, di Re Cecconi, di Wilson, di Lovati – che rimpiangono e ricordano padri scomparsi troppo presto) risuonano le parole di Aurelio Picca, poeta e laziale – non si sa in che ordine di importanza – che sanno suonare allo stesso tempo come epitaffio e come monito: “la Lazio raggiunge in un colpo solo il sublime, l’assoluto, con la gioia intensa. Ma del resto la gioia è un lusso. La pianificazione è la felicità, che in fondo è una gioia borghese. La Lazio poteva solo raggiungere – e ha raggiunto – il lusso. E il lusso, come la grande gioia, dura poco”. Non ci resta che attendere un nuovo lusso che già sappiamo non arriverà mai. Almeno non ora, soprattutto non così.