Man from Tokyo – Flash Ganna e i suoi fratelli

Non ho niente da mettermi. Dovevo venire a Tokyo e compiere 65 anni per pronunciare, sia pure tra me e me, quella frase che ogni uomo ha sentito centinaia di volte. L’imperdibile opportunità mi è stata fornita dall’invito dell’ambasciatore Giorgio Starace (…) al ricevimento organizzato sabato alle 19 nella Residenza d’Italia – sulla mail si legge “presso”, che significa nei dintorni, ma immagino che li facciano entrare – in occasione della conclusione delle Olimpiadi. Dress code: Smart Casual, proprio con tutte quelle maiuscole. A parte il fatto che l’ambasciatore italiano, o chi per lui, potrebbe anche scrivere in italiano e quindi abbigliamento richiesto, informale ma elegante, la domanda sorge spontanea: cosa si intende con questa formula? I jeans sono ammessi? Probabilmente sì, ma immagino soltanto di alcuni marchi. Quello che fa le divise azzurre, per esempio, sarà sicuramente gradito. E le polo sono contemplate? Idem, o forse no, è richiesta la camicia. Bianca? NON HO NIENTE DA METTERMI! In realtà sabato mi vestirò a più strati, l’ultimo dei quali affidato alla salvifica felpa con cappuccio del liceo Calini e andrò prima a vedere la finale del torneo di basket (Stati Uniti-Slovenia, presumo) nella ghiacciaia della Saitama Super Arena, poi toglierò tutto fino ai limiti dettati dalla decenza per vivere l’ultima serata di atletica nella fornace dell’Olimpic Stadium.

 

 

A proposito. Ero stato facile profeta nell’indicare in Karsten Warholm l’atleta che avrebbe ottenuto il risultato più eclatante di questi Giochi, ma mai avrei immaginato che avrebbe abbattuto il muro del 46” nei 400 ostacoli. É invece il venticinquenne norvegese ha vinto la medaglia d’oro correndo in 45”94, incalzato e stimolato dallo statunitense Rai Benjamin che con 46”17 è a sua volta sceso ampiamente sotto il precedente primato di 46”70 stabilito appena un mese fa a Oslo dallo stesso Warholm. Tempi che collocano entrambi avanti di almeno vent’anni: se nutrissi velleità di insidiare Matusalemme, direi di voler vivere fin quando un terzo atleta stabilirà un nuovo record sulla distanza. Distanza sulla quale si è registrato un exploit anche al femminile, grazie a Sydney McLaughlin, americana del New Jersey che sabato compirà 22 anni, che ai Trials di Eugene di fine giugno era diventata la prima donna a scendere sotto i 52”, vincendo in 51”90, tempo migliorato ieri fino a 51”46. Spero di non avervi stordito con i numeri: prima di una rapida incursione in campo musicale suggerita dal cognome dell’ostacolista, segnalo che il suo primato varrebbe la quarta prestazione italiana di sempre sulla distanza piana, a un secondo e un centesimo dal miglior tempo assoluto, firmato da Libania Grenot.

 

 

Si chiama McLaughlin, John McLaughlin, uno dei più strepitosi chitarristi tra quanti ho sentito dal vivo, fondatore, con il batterista Billy Cobham, della Mahavishnu Orchestra, il cui secondo album, Birds of Fire del ’73, compare nella mia personalissima top ten. Gruppo davvero particolare, l’orchestra del Grande Visnù, sia per l’eterogeneità dei musicisti, sia per l’originalità delle composizioni. Memore dell’insegnamento di Frank Zappa, il quale sosteneva che parlare di musica aveva lo stesso senso che ballare di architettura, la farò breve. Credo però valga la pena di ricordare gli altri membri della formazione originale, quelli che incisero i due primi lavori, a partire dal bassista Rick Laird, irlandese di natali ma cresciuto in Nuova Zelanda, scomparso quest’anno dopo essere diventato un fotografo di successo. Il testierista era invece il praghese Jan Hammer, trasferitosi ventenne negli Stati Uniti nel ’68, dopo che i carri armati sovietici avevano messo fine alla Primavera di Dubček, e successivamente autore della sigla della popolare serie televisiva Miami Vice. Un discorso a parte – che non faremo – meriterebbe il talentuoso violinista, Jerry Goodman, che dopo il terzo album lasciò il posto a un altro virtuoso dello strumento, il francese Jean-Luc Ponty, celebre anche per la successiva collaborazione con Frank Zappa, che a questo punto starà scuotendo il capo, ovunque si trovi dall’ormai lontano dicembre del ’93.

 

Torniamo alle Olimpiadi. Ieri è arrivata la sesta medaglia d’oro, quella dell’inseguimento a squadre su pista, conquistata a suon di record mondiale battendo in finale gli indomiti danesi, staccati di 166 millesimi e capaci di finire a loro volta sotto il primato stabilito dagli azzurri in semifinale. Con ogni probabilità il successo, che mancava dai Giochi di Roma 1960, resterà abbinato al nome di Filippo Ganna, il più celebre dei quattro e oggettivamente colui che ha guidato la locomotiva negli ultimi tre giri. Come nel caso della Mahavishnu Orchestra, trovo doveroso citare anche gli altri componenti, vale a dire Simone Consonni, Francesco Lamon e Jonathan Milan. Un quartetto di nobiltà, suggerisco come titolo. Continua invece l’ecatombe delle squadre azzurre nei quarti di finale. Dopo il basket, sono state eliminati ieri anche le ragazze della pallavolo e il Settebello della pallanuoto, in entrambi i casi in maniera netta, rispettivamente 3-0 e 10-6 (9-3 all’intervallo) e per mano della Serbia. Mi nasce il sospetto che dopo l’oltraggio subìto in casa nella finale del preolimpico di basket, qualsiasi rappresentativa di Belgrado che incontri l’Italia moltiplichi gli sforzi in cerca di vendetta. D’altronde si dice serbo rancore…