Man from Tokyo – La storia siamo noi

Antonella Palmisano

Altro che poeti, santi e navigatori: da ieri l’Italia è un paese di atleti, velocisti e marciatori. In una giornata se possibile ancora più esaltante di domenica primo agosto, la rappresentativa azzurra ha conquistato altre tre medaglie d’oro, portandone il totale a dieci, mentre il bottino generale sale a 38, cancellando il primato di Roma 1960. Due di queste medaglie sono state conquistate dall’atletica (la terza da Luigi Busà nel kumite, che se avesse vinto in un altro giorno avrebbe goduto di spazi… spaziali e invece farà dal punto di vista mediatico la fine del vaso di coccio tra i vasi di ferro) nella gara di apertura e di chiusura di questo venerdì azzurro, nella competizione più lunga e in quella più rapida. Nel pomeriggio di Sapporo la marciatrice tarantina di Mottola Antonella Palmisano, che proprio ieri compiva trent’anni, ha emulato il corregionale Stano, trionfando sulla stessa distanza dei 20 chilometri; poco prima delle 23 di Tokyo la staffetta veloce – mai definizione fu più azzeccata – ha conquistato l’oro al termine della gara perfetta, correndo in 37”50 (nuovo record italiano, ça va sans dire) un centesimo in meno della Gran Bretagna, rifilandone ben 20 al Canada. Una vittoria sul filo di lana, propiziata dal movimento perfetto di Tortu, che cancella con un tuffo l’amarezza della prova individuale e completa l’opera iniziata da Patta e proseguita da Jacobs e Desalu. Il bresciano di El Paso, già scelto come portabandiera per la cerimonia di chiusura, entra così nel ristretto novero dei velocisti capaci dell’abbinata olimpica 100 e 4×100: gli statunitensi Jessie Owens a Berlino 1936, William Dillard a Londra ’48, Lindy Remigino a Helsinki ’52 e Bobby Morrow a Melbourne ’56; il tedesco Armin Hary a Roma ’60; gli americani Bob Hayes a Tokyo ’64, Jim Hines a Città del Messico ’68 e Carl Lewis a Los Angeles ’84; il canadese Donovan Bailey ad Atlanta ’96; ancora uno statunitense, Maurice Green a Sydney 2000 e il giamaicano Usain Bolt a Londra e Rio.

 

 

Rimaniamo in tema di staffette, perché ieri sera anche la 4×400 è stata protagonista di un’impresa. Il quartetto composto da Alessandro Sibilio, Vladimir Aceti, Edoardo Scotti e Davide Re non solo si è qualificato per la finale di questa sera, ma ha migliorato di quasi due secondi e mezzo il record italiano che resisteva dagli Europei di Stoccarda del 1986, quelli della tripletta (allora non si diceva triplete) nei 10.000 metri con Stefano Mei (attuale presidente della Fidal) a precedere il campione uscente Alberto Cova e quello che sarà il suo successore, Salvatore Antibo. Nell’occasione Buongiorni, Zuliani, Petrella e Ribaud corsero in 3’01”37, mentre ieri gli azzurri hanno siglato uno strepitoso 2’58”91′ sgretolando il muro dei tre minuti e ottenendo il quinto tempo assoluto.
La serata che si è conclusa sulle note di Volare dei Gipsy Kings ha regalato ancora una volta risultati di altissimo livello. Su tutti il record olimpico dei 1.500 metri femminili della keniana Kipyegon, un 3’53”11 ancora più straordinaria considerate la temperatura e l’umidità elevate. È invece la seconda prestazione mondiale all time il 41”02 con il quale la Giamaica ha trionfato nella 4×100 femminile. Per noi italiani – ma non solo – resterà però la serata dei nostri velocisti, capaci di vincere un oro nel quale a dire il vero un po’ tutti speravamo dopo il successo di Jacobs e l’ottimo comportamento della staffetta in batteria, ma che soltanto una settimana fa sarebbe parso fantascienza. Come i cinque ori conquistati nell’atletica, ovvero uno di più di quelli raccolti nelle precedenti otto edizioni dei Giochi.

 

Luigi Busà

 

Da ieri intanto sono un uomo libero. L’app Ocha, scaricata ancora in Italia, dopo l’inserimento degli ultimi dati sanitari è diventata verde e contestualmente è apparsa la scritta cleared, vale a dire pulito, autorizzato, ma anche liberato, appunto. Quindici giorni dopo il mio arrivo in Giappone, sette tamponi negativi, mai una linea di febbre, per il governo nipponico non rappresento più in potenziale pericolo e così i miei orizzonti si ampliano e i tempi morti si riducono. Da ieri posso camminare per strada, entrare in negozi e ristoranti e utilizzare i mezzi pubblici, a partire dalla metropolitana, di gran lunga il più veloce per trasferirsi da impianto a impianto, senza necessariamente passare per il parcheggione da dove muovono le navette. Circostanza questa che mi consentirà di evitare di partecipare mio malgrado alla sit comedy ambientata nel Main Transport Mall, il parcheggione appunto, che vede protagonisti i gentilissimi, educatissimi, sprovveduti volontari, ciascuno dei quali dispone di una cartelletta con indicate le sigle alfanumeriche delle piazzuole da dove partono le navette, con i relativi orari. Purtroppo non c’è un tabellone riassuntivo, come ad esempio a Beijing, né tantomeno una app o un sito da consultare. E se gli indirizzi più utilizzati si memorizzano rapidamente (il mezzo che mi riporta in albergo parte dal posto A8 alle .50 di ogni ora) per trovare quelli che raggiungono impianti mai visitati prima o si passano in rassegna tutte le piazzuole, dove un cartellone verde indica le destinazioni, oppure si chiede ai già citati volontari. Dipende dal tempo a disposizione e dalla voglia di peregrinare nel Mall, voglia che crolla verticalmente nelle ore più calde. E veniamo alla sit comedy. Il primo problema è scovare un volontario che sappia quelle due parole d’inglese sufficienti per capire la domanda e fornire la sigla. E questo già ne elimina il 90%. Una volta scovato il poliglotta, questi, esaurito il repertorio di inchini e convenevoli, comincia a scorrere il foglio dall’alto al basso, quindi lo gira, lo riguarda stavolta partendo dal basso e infine interpella un collega, che consulta la sua cartelletta con identica modalità e stesso esito. Chiedo al mio capo, dice a questo punto uno dei due (talvolta dei tre o quattro: i volonterosi volontari in questi casi accorrono numerosi e i tempi ovviamente si dilatano) e si attacca al telefono. Immancabilmente senza risultato. Un’ulteriore complicazione è l’incapacità, presumo per indole, di ammettere di non avere una risposta. Un bel Sorry I don’t know. Piuttosto si farebbero picchiare (e non escludo che qualche collega esasperato l’abbia fatto). Ti guardano come cani bastonati, farfugliano qualcosa e non ne vengono fuori. Nei primi giorni le loro espressioni mortificate e una solida educazione mi hanno impedito di ringraziare e rivolgermi rapidamente altrove, poi un paio di navette perse mi hanno consigliato di riprendere al più presto la caccia al tesoro. In compenso la soddisfazione del volontario in grado di fornire l’indicazione richiesta riesce persino a essere superiore alla mia: inchini reiterati, occhi che ridono, ampi gesti in direzione della meta, alla quale talvolta sono stato accompagnato. L’alternativa, sempre fino a ieri, era utilizzare uno dei taxi messi a disposizione dall’organizzazione, facilmente riconoscibili per lo stemma a cinque cerchi sulle portiere posteriori, gli unici sui quali potevamo salire, in virtù del fatto che gli autisti facevano a loro volta parte della bolla. Orbene, stiamo parlando (scrivendo…) di tassisti a esclusiva disposizione dei giornalisti (per salire bisogna mostrare l’accredito) i quali hanno prevalentemente come mete gli impianti di gara, che sono poco più di una trentina. Eppure, dei sette o otto che ho fermato, soltanto uno conosceva la strada. Agli altri, che mi guardavano come se avessi chiesto loro di recitare il quinto canto dell’Inferno, ho sempre dovuto allungare il libretto, fornito dall’organizzazione, con indirizzi, descrizione e mappe. Non sempre sufficienti peraltro perché il mezzo partisse: un paio di volte si è resa necessaria una telefonata, per fortuna coronata da successo e seguita dagli immancabili bofonchiamenti soddisfatti.