Man from Tokyo – Sogno di una notte di mezza estate

E adesso per una notte si può sognare. Marcell Jacobs, il velocista nato in Texas, ma trasferitosi con la madre Desenzano quando non aveva ancora compiuto tre anni, ieri ha ottenuto il secondo tempo nelle batterie dei 100 metri: 9”94, che migliora di un centesimo il primato italiano che aveva stabilito poco più di due mesi fa. Meglio di lui soltanto il canadese De Grasse che ha corso in 9”91. Stasera Jacobs tornerà in pista per diventare il primo azzurro a qualificarsi per la finale olimpica dei 100. sarebbe già questo un risultato storico, ma dopo quanto visto ieri, e mi riferisco anche all’arrivo in scioltezza, senza spingere gli ultimi appoggi, sognare una medaglia è lecito. A fargli compagnia in semifinale ci sarà FIlippo Tortu, il primo italiano a scendere sotto i 10 secondi, che ieri ha corso in 10”10, togliendo 7 centesimi alla sua migliore prestazione stagionale. Difficile possa bissare l’approdo in finale ottenuto ai mondiali di Doha del 2019, ma anche grazie a lui, le quotazione della 4×100 sono in crescita. Ieri intanto la giamaicana Elaine Thompson si è confermata la donna più veloce del mondo, togliendosi anche la soddisfazione di stabilire con 10”61 il nuovo record olimpico, un centesimo meglio del tempo con il quale la Griffith, in odore di doping, aveva trionfato a Seoul. Alle sue spalle, in una finale che ha visto in lizza più svizzere (due, le prime nella storia) che statunitensi, si sono classificate le connazionali Shelly-Ann Fraser e Sherika Jackson. Eliminata in semifinale Jenna Prandini, il cui bisnonno nel 1910 lasciò Lodrino, piccolo centro bresciano a cavallo tra Valtrompia e Valsabbia, per cercare fortuna in America, stabilendosi in California. A completare la giornata deludente degli Usa, il bronzo della staffetta 4×400 mista, gara recente che sembrava essere fatta apposta per portare altro oro agli yankee ed è invece stata vinta dalla Polonia davanti alla Repubblica Dominicana.

 

 

I tifosi a stelle e strisce possono però consolarsi grazie a Ju Vaughn Harrison, che si candida a un ruolo da protagonista in questi Giochi, centrando agevolmente la finale del salto in lungo, il giorno dopo aver raggiunto lo stesso obiettivo nell’alto. Per trovare un altro atleta capace di fare altrettanto, bisogna scomodare una leggenda e fare un balzo indietro fino a Stoccolma 1912, quando Jim Thorpe, nato nel 1887 come Wa-Tho-Huh, Sentiero Luminoso, negli Indian Territory, oggi Oklahoma, vinse l’oro nel decathlon e nel pentathlon, che comprendevano appunto alto e lungo. Medaglie che gli furono peraltro tolte l’anno successivo con l’accusa di professionismo legata alla sua precedente attività di giocatore di baseball e restituite formalmente nell’83, trent’anni dopo la sua scomparsa.
Harrison, classe ’99, sarà stasera una dei rivali più pericolosi di Tamberi (che venerdì l’ha definito un po’ grezzo tecnicamente ma straordinariamente esplosivo) e il giorno dopo ritroverà Randazzo – qualificatosi ieri con 8,10 al primo salto, sesta misura – nella gara che assegnerà le medaglie del lungo, specialità da tempo a dir poco depressa. A Rio per vincere l’oro bastò infatti 8.38, a Londra 8.31 e a Pechino a 8.34: senza scomodare il primato olimpico di Beamon, il celebre 8.90 stabilito nel ’68 in altura a Città del Messico, fino al 2000 con quelle misure si faticava a salire sul podio. Nella serata aperta dalle premiazione dei 10.000 metri disputatisi in chiusura del primo giorno del programma di atletica (anche qui una stranezza: nessun keniano sul podio), si è registrata infine la doppietta svedese nel lancio del disco, con relativa, incontenibile gioia dei due giganti, in particolare di Daniel Stahl, primo con un apprezzabile 68,90 che, ad onta del quintale e mezzo di stazza, si è poi abbandonato a scatti e balzi sulle note di Dancing Queen degli Abba. Anche in questi momenti di euforia, così come in occasione della consegna delle medaglie, si avverte appieno il silenzio degli spalti, al netto del calore degli atleti in tribuna e, in parte, di fotografi e giornalisti. E mi viene da dire che l’udito è ancora più penalizzato della vista, in qualche modo ingannata dai seggiolini pixellati. D’altronde lo sguardo è rivolto al campo di gara e soltanto negli intervalli si alza ad abbracciare il pubblico, ma uno sprint nel silenzio, anziché nel crescendo di voci e di grida che lo accompagna passo dopo passo fino al boato del tuffo sul filo di lana, è come una melodia suonata da un ottavino, al posto di un’orchestra di cento elementi. Prima della magica serata all’Olimpic Stadium (stadio Olimpico mi fa troppo Roma-Lazio) ho visto (e sorretto…) l’Italia del basket che ha battuto la Nigeria 80-71, qualificandosi così per i quarti di finale, nei quali incontrerà Usa o Francia o la vincente dell’odierno Spagna-Slovenia, al termine del quale verrà effettuato il sorteggio. Comunque vada sarà una sfida che non vedrà l’Italia vestire i panni della favorita, proprio come era accaduto per il preolimpico di Belgrado, ha ricordato con orgogliosa fiducia capitan Melli. La gara con gli africani ha avuto uno svolgimento strano, al limite del bizzarro, sintetizzato dal 27-12 per gli azzurri dell’8′ e dal 64-56 per la Nigeria sul quale si è aperto l’ultimo quarto: dunque un 52-29 per i nostri avversari, che però nel parziale decisivo hanno subìto un clamoroso 24-7. L’Italia ha concluso con Mannion, Tonut, Fontecchio, Polonara e Melli in doppia cifra; poco impegnato Gallinari (ma non chiedetene ragione a Sacchetti, altrimenti si arrabbia, come è successo in zona mista), Ricci ha segnato un paio di canestri pesanti, mentre Pajola, partito in quintetto, è stato ancora tra i migliori. Martedì la gara che varrà la semifinale. C’è tempo. Prima dobbiamo sognare con Jacobs e il giorno dopo con Vanessa, ieri protagonista di un video con il suo allenatore e direttore tecnico della nazionale, Enrico Casella.