Avremo ancora l’occasione di ballare insieme: la luce in fondo al teatro di Deflorian/Tagliarini

 

«Che cosa può cominciare da questo buio?»: la questione risuona a un certo punto, più o meno in questi termini, nell’ultimo lavoro di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, Avremo ancora l’occasione di ballare insieme (visto al LAC di Lugano, mancato – per i tempi infausti – al Théâtre Garonne di Tolosa, e rivisto con grande trasporto all’ERT di Bologna, Arena del Sole; da vedere 10-13 febbraio al Fabbricone, Teatro Metastasio di Prato, e poi 20-23 aprile alla Triennale di Milano). E il teatro di Deflorian/Tagliarini sembra provenire dall’anfratto profondo evocato/provocato da questa domanda. Dal coraggio di porsela, non soltanto in questi tempi confinati e scuri (sarebbe limitante e improprio schiacciare il loro lavoro sulla condizione attuale). Dal senso di stallo, e insieme dallo stato di necessità e dalla mozione generativa che deriva da questo interrogativo. Fare teatro come lo fanno loro (“cosìddetto di parola”, questo “polveroso indecifrabile guazzabuglio, carico di storia”) è – quasi letteralmente – un tragitto pericoloso, faticoso, eppure sorprendentemente remunerativo (riportare quel che di raro e prezioso si nasconde), analogo a quello di scendere nell’oscurità di una miniera (curioso ribaltamento del cliché che vorrebbe l’arte come privilegio comodo). Riavvolgere, rivedere, eroticizzare ed erodere, portare alla luce conservando le ombre (re-wind), come uno scultore o come il vento, lavorando con pervicacia, gradualmente e per sottrazione (e per accumulo di materiale scartato), per mesi e mesi, sul proprio oggetto del desiderio e d’elezione (culturale e cultuale: sia esso Pina Bausch o Antonioni; qui Ginger e Fred di Fellini) significa rischiare di farlo implodere, di perderlo, ma al medesimo tempo è la via per incorporarlo a tal punto da permettergli di riverberarsi, fine e luminescente (come raffinata pietra preziosa, pura gioia), nella propria di storia (vissuta, ricordata e sognata) e, poi, in quella di chi assiste all’esito di questa particolarissima elaborazione. Scavare oltre a quello che si dà come visibile/evidente e andare molto al di là di ciò che viene (di)mostrato permette di dare consistenza a un sotto – fondamenta, anima e non detto – che rende essenziale e densissimo, anche se in apparenza spontaneo, quello che ascoltiamo. Si potrebbe parlare di un teatro-iceberg, ché la “trilogia dell’invisibile” (Rewind, Reality e Ce ne andremo per non darvi altre preoccupazioni) continua senza esaurirsi negli scavi cenefilo-autobiografici da cui muovono Quasi niente e quest’ultimo. Ed è anche in virtù di questa immersione e di questa decisiva zona soggiacente, questo modo di preparare, propiziare e abitare la scena, che le “restituzioni” toccanti, perché inscritte nell’intersezione fra vicenda personale e immaginario comune, di Deflorian/Tagliarini, si sovrappongono e si intrecciano con grazia a quelle dei loro attori: qui tornano la voce ironica e come musica di Monica Demuru e il corpo insofferente e mai pacificato di Francesco Alberici, scopriamo l’esperienza attenta di Emanuele Valenti e le ambizioni nevrotiche di scena di Martina Badiluzzi (una proiezione di Daria da giovane?). Questo vuoto pienissimo chiede implicitamente allo spettatore un ascolto, un’esposizione, un affidamento (fiducia e ruolo attivo) paralleli al denudarsi/interrogarsi/mettersi in gioco della coppia creativa e dei suoi complici (nella consapevolezza che «gli occhi sono una parte così stanca del sentire»).

 

 

Una “ghost light” presidia questo spazio scenico fantasmatico abitato da una finzione verissima frutto di tante stratificazioni (Sovrapposizioni è il titolo zanzottiano del collaterale di questo lavoro a partire da Fellini), come un fulcro magico, punto di riferimento spiritico di un’utopia minima, eterea e penetrante. Questo luogo si presenta fin da principio nella sua dimensione archeologica e fallimentare eppure necessaria, conducendoci (come la guida iniziale fa con i turisti post-drammatici) in un territorio divenuto alieno, a osservare con ironia/nostalgia le vestigia di un mondo sommerso dalla Catastofre, una zona dimenticata e inesplorata di noi, dimensione post-apocalittica ma anche, in fondo, intima e domestica (prigione, anima, respiro) che sopravvive e resiste là dietro la curtain (il sipario, spesso dimenticato o dimenticato aperto dal teatro contemporaneo, qui viene eletto a fondale in una prospettiva ribaltata, in cui intuiamo che siamo spettatori ma anche il personaggio nascosto là dietro, oltre quella strana cortina, oltre quella quarta parete di velluto – mare, nebbia e pelle cangiante – che ci divide dal nostro doppio). In questa casa/cella/cellula/arca, palco vuoto e spoglio ma ricchissimo di aperture (quel varco sul fondo di Chi ha ucciso mio padre, ché il cielo che non è un fondale: nel teatro di D/T la reality bussa sempre alla porta, penetra come spiffero), a un tempo consolazione e ossessione, conservazione e conversazione, dannazione e salvezza. Questo è il teatro, o forse tutto quello che sta dietro e dentro al teatro e ne costituisce essenza palpitante e nevrosi, possibilità generativa e sortilegio, zona di residenza e resistenza. La ghost light, con quella luce fioca ma persistente, rivela, dice il testo, «uno spazio a cui pensi quando non ci sei» (non è questa una definizione perfetta, oltre che del domestico, dell’esperienza estetica tout court, quando viene da e produce qualcosa di vivo?). Quella luce spettrale, cura e testimonianza, luce in fondo al tunnel e spia, è dunque fiammella e focolare, scintilla e shining, fuoco fatuo, lucina notturna e torcia olimpica, boa nell’oceano e faro nella notte, lucciola pasoliniana e candle in the wind, fonte preziosa per sberlucchii di paillettes e mirror ball da balera, dove – complice un gioco di riflessi – tornare a ballare. Ecco il luccichio di pietra preziosa, generatore d’intensità, e di vaste e feconde penombre.

 

 

Del resto che il teatro di D/T, gibigiana di luci fuori campo, sia fatto, anche e soprattutto, da quello che non ci fa vedere (quasi niente) lo intuii la prima volta che lo incontrai, quando, in Questo cielo non è un fondale, riuscivano a creare una dissolvenza in nero cinematografica, come per magia, chiedono al pubblico, semplicemente e gentilmente, di chiudere gli occhi (un’idea che nessuna costosa scenografia o raffinata luminotecnica potrebbe lontanamente eguagliare: economia di scena ed epitome di quel patto speciale con il pubblico che non è semplice dire). E non è forse questa sospensione di visibilità (rivoluzionaria e inattuale, e dunque potentissima, “dopo il lungo strapotere dello sguardo”) che evocano fin da Rewind rivelandoci il piacere preliminare della “mezzasala”, quando le luci si abbassano e il buio annuncia – promessa di ogni cominciamento – come ancora tutto può accadere? Che la vista fosse un senso sopravvalutato lo sapevamo già da principio, quando in quello spettacolo fondativo e geniale ci facevano percepire e rivivere la forza espressiva di Café Müller di Pina Bausch, senza mai mostrarcene nemmeno un frammento (un filone di pensiero che ha illustri complici teorici da Saint-Exupéry a Wenders). Ma vale citare, per pregnanza e potenza di sintesi, da Reality, un’immagine/racconto che pare comprendere l’esperienza artistica e l’approccio al mondo di D/T. Dice Daria, infine: «A Bali, si dice, c’è uno spettacolo di danza che avviene tutto dietro a un telo. Per mesi i danzatori si preparano, studiano tutti i movimenti dei polsi, delle dita, delle caviglie, delle anche, sincronizzano i movimenti degli occhi. Il giorno dello spettacolo impiegano ore per truccarsi, trasformando il loro viso in una maschera imperturbabile e poi indossano dei pesanti, elaborati e coloratissimi costumi. Quando tutto è pronto, arriva il pubblico dai villaggi intorno e la danza comincia dietro al telo. Perfetta. Gli spettatori guardano rapiti. (pausa) Cosa vedono?».

 

 

Ancora una domanda, su questo vedere/non vedere, che ci inquieta e ci seduce fatalmente. E quest’ultimo lavoro di D/T è pieno di questioni, che sono poi il corrispettivo in parole del buio (quasi) totale, del blackout che (ri)muove al centro la pellicola di Fellini, e che questi sei personaggi in cerca di aurora vogliono (farci) sperimentare («Proviamo a spegnere tutto?»), in un momento decisivo e liminare dello spettacolo in cui confessione, sonno e sogno sono possibili e prendono corpo nell’oscurità. Numerosi sono del resto i “fuori campo” (i non visti) indotti dall’uso delle tende, che (s)velano spazi nascosti e richiedono ancora una volta la nostra partecipazione attenta nel riempire i neri, e la loro lubitschiana pregnanza. La presenza/possibilità del pubblico oltre un sipario serrato, s’è detto, ma anche quello spazio fuori scena del camerino e della cameretta, quello pre-liminare delle prove e della preparazione, quello dell’ideazione e quello dell’illusione (tutti spazi claustrofilici che, pur protettivi e propedeutici, contengono un rischio soffocante, paralizzante, perfino tumulativo). Qui, dietro queste porte chiuse abitano infatti, come è umano, anche la presunzione, il solipsismo, la velleità, la paura del pubblico, il senso d’inadeguatezza e quello di onnipotenza (incontro/scontro con lo sguardo dell’altro), l’ambiguità/ambivalenza che il trucco e il costume portano con sé, nella ricerca di qualcosa di autentico en travesti, e quel misto impuro e frenetico, di vita e di fatica («Cosa ci unisce? Il sudore») che sembra l’ingrediente ultimo, tolta ogni piuma, della cucina teatrale, e coincide con il corpo dell’attore/persona. Nel ristorante dietro alle quinte di un mestiere precario e incerto, scuola di sopravvivenza, si risponde a ordinazioni grottesche e si mescola marginalità ed essenza, in una chiamata in scena che è attesa infinita di uno spettacolo mai certo e mai chiuso, bizzarro menù di pi-atti mancati. In questo squilibrio fra intenzioni ed esperienza, aspettative e concretezza, si fa viva l’urgenza di «smettere di provare e provare a vivere». D/T sono capaci di mettere in gioco la crisi, personale e collettiva, inscenando le difficoltà stesse, gli inciampi, i risentimenti e gli smarrimenti e, attraverso i fantasmi di Ginger e Fred, gli inciampi e i loop di una coppia creativa consumata, e, sì, anche la paura d’invecchiare, le minacce d’inaridirsi e lo spettro della morte. Perché sì, si può smettere di parlare/ballare, il rischio, che si annida in ogni pratica creativa, della battuta stantia e della lettera morta, del vuoto. Di qui la necessità di uscire dagli schemi e dai propri schemi, di andare in balera, tornare a vivere («Let’s face the music and dance!»), la necessità D’aria, di fischiettare, di essere uccelli piumati che danzano, cardellini per salvarsi dal grisù della propria grotta, e fuggire, finché possibile, le pose dell’uccello impagliato. Si tratta di uno spettacolo che pur facendo i conti con la paralisi, il venir meno, l’inciampo, lo scacco dello sguardo e della parola, riscopre al contempo una voglia matta, contagiosa e preziosissima, di ri-aprire le danze, di ricominciare da questo buio, da quella luce sottile.

 

Foto di Andrea Pizzalis