“Il tennis è ben più di uno sport. È un’arte, come il balletto. O come il teatro…”
Bill Tiden
C’è qualcosa di magnificamente umano e di potentemente tragicomico nel monologo Roger di Umberto Marino (al Teatro Ambra Jovinelli di Roma fino al 24 ottobre). Come protagonista, un tennista senza nome ed eterno secondo (strepitoso Emilio Solfrizzi). Per quanto ci alleniamo, ci sforziamo, studiamo, ci prepariamo, davanti al campione fuoriclasse non potremo mai farcela, nemmeno con la proverbiale «botta di culo». Il vento per esempio, nel caso del tennis, può far cambiare improvvisamente traiettoria alla palla a nostro favore. Può succedere. Possiamo fare un punto, perfino provocare qualche goccia di sudore nel campione, ma il gioco, il set e il match difficilmente saranno nostri…Il protagonista, l’unico fisicamente in scena, riflette sulle infinite possibilità dei colpi dell’avversario: «la manderà a destra? A effetto? A rete? A velocità imprendibile?». Pensa alle possibili difese e ai goffi rimedi per poter limitare i danni. Ogni colpo ha una reazione imprevedibile e imprendibile del genio del tennis. Dall’altro lato del campo – idealmente, proprio dove siamo seduti noi spettatori – c’è/non c’è infatti il “numero 1”, Roger (chiaramente Federer).
Un “numero 1” o “un dio” del tennis si sta confrontando con un “numero 2”, un eterno numero 2, anzi, peggio, perché lo sfidante senza nome presto si ritroverà sicuramente a scendere in classifica a numero 3 o 4, e poi forse al numero 135 e ancora più giù…«Il tennis è stato inventato da dèi malvagi…», osserva il tennista senza nome, riflettendo sull’assurdità del punteggio che va – inspiegabilmente – da 15 a 30 per poi andare a 40 e infine saltare misteriosamente da un numero alla parola “gioco”. Quando da bambino chiedi il perché di quel punteggio bislacco e così distante dalla logica matematica, gli adulti fingono di non sentirti. Quando finalmente sei adulto e giochi da professionista non sai dare nemmeno tu una risposta a quella domanda, mentre il “numero 1”, probabilmente, nemmeno se lo chiede. Tutto pare automatico e quasi facile in lui: «Game, set and match!». Marino porta liberamente in scena il suo libro omonimo (MdS Editore, pag.100, euro 12). Lo fa con un solo grande attore in scena, Solfrizzi, in maglietta e calzoncini bianchi, due seggiole a bordo “campo”. Nessuna racchetta, nessuna pallina, nessun avversario visibile. Eppure, l’iperbolico linguaggio utilizzato, il corpo del protagonista incredibilmente snodato, a volte quasi da cartoon a volte marionettistico à la Totò, i suoi toni (alti, striduli, mezzi, di ogni tipo, variano nell’arco di un secondo) sono sempre così vividi ed evocativi da farci percepire ogni colpo, ogni inciampo, ogni figuraccia. “Siamo” lui. Soli, sul campo-mondo “quotidiano” dalle sfumature beckettiane. I suoi “cinema” mentali sono puro slapstick e farfugliamento sportivo. Sentiamo il sudore e la fatica e ne ridiamo, perché è impossibile non immedesimarsi nel loser che ce la mette tutta. Vediamo le palline assenti quanto imprendibili, che finiscono nelle siepi dietro al campo o «probabilmente agli Inferi» e nessuno le trova più. «Possono essere ritrovate soltanto da un Orfeo impazzito o, anni dopo… da uno yorkshire terrier!». Il numero due ha una consapevolezza quasi mitologica della disfatta. Chissà, magari un giorno ce la farà! No, sicuramente no… Per dirla con Charlie Brown: «Per quanto tu faccia non serve mai a niente!»Non perdete a teatro la magnifica tragicommedia di un tennista ridicolo.
Roger di Umberto Marino
con Emilio Solfrizzi
Compagnia Moliere
Teatro Ambra Jovinelli di Roma, fino al 24 ottobre
Foto di Federica Di Benedetto