Visions du Réel: Kombinat, viaggio nella città russa dell’acciaio

Magnitogorsk, nel cuore della Russia, a sud degli Urali: scenario d’acciaio di una città industriale, pensata da Stalin per ospitare quella che a lungo è stata la più grande acciaieria sovietica. Urbanistica lineare, una lunga strada ai cui bordi insiste la città che ospita le famiglie degli operai della fabbrica. Che si chiamava e si chiama ancora Kombinat e che dà il nome al documentario che lo svizzero Gabriel Tejedor è andato a girare lì, proposto in Concorso a Visions du Réel 51, edizione on line. Lavoro a schema osservativo, che si innesta nelle giornate di tre famiglie di operai più o men giovani, sicuramente generazione post perestrojka, cresciuta quando ormai Magnitogorsk non era più una città chiusa, luogo industriale strategico dell’Unione Sovietica, precluso agli occhi stranieri. Tejedor allora non avrebbe potuto muoversi tra questa gente per osservare le loro giornate, oggi invece l’acciaieria è lì, davanti al suo obiettivo, fuma dalle ciminiere sullo sfondo della città e disegna sagome notturne affascinanti. Il film ce la mostra come una struttura che crea la cornice esistenziale per queste persone. L’incipit è potente: un travelling notturno che segue lo snodarsi di tubi nel perimetro del Kombinat, a snidare il luogo di lavoro che accoglie gli operai. Poi la narrazione si spinge però negli interni domestici dei lavoratori, cercando la relazioni familiari: mogli, figlie adolescenti, bimbi, genitori anziani.

 

 

Ma ciò che interessa Tejedor non sono tanto la vite private, quanto lo scenario d’insieme della città, il tenersi di queste persone attorno a un’idea di comunità che evidentemente funziona in maniera identitaria rispetto all’acciaieria. La grande festa dei lavoratori che si sta preparando diventa lo specchio in cui si riflette il ruolo di ognuno e offre la visione complessiva di una Russia putiniana che ingloba quella sovietica e ne marca la distanza. I vecchi genitori vedono nello zar contemporaneo un eroe, i giovani ne discernono l’autoritarismo, tutti insieme prendono parte alla festa. Chi ballando la salsa, seguendo i passi appresi sera dopo sera nella scuola di danza della città, il ragazzino che recita la poesia sull’operaio, le adolescenti che marciano in divisa…Kombinat offre insomma uno spaccato di cosa significa essere russi oggi, ma anche una visione in trasparenza della matrice storica da cui prende le mosse, quel passo stalinista della realtà che si è disperso, ma ha lasciato l’impronta. E il confronto indiretto, ancor più forte, è con gli scenari sociali delle città industriali occidentali, perché la sensazione che a Magnitogorsk il proletariato abbia ancora una sua identità è forte, tanto quanto netta è la consapevolezza della disfunzione identitaria vissuta dai lavoratori delle nostre acciaierie, per i quali l’idea di appartenenza a una “classe” è ormai assolutamente astrusa. Il film ha dunque la forza di tenere insieme una narrazione problematica ma anche lineare, in cui le figure alle quali in regista si affianca con attenzione diventano le punte di un compasso che traccia un perimetro identitario tanto problematico quanto unitario.

 

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