Daniele Russo: Zona Rossa al Teatro Bellini di Napoli, un’azione tra l’artistico e il politico

Dal 20 dicembre quattro attori e due registi/drammaturghi sono chiusi dentro il Teatro Bellini di Napoli e lavorano, ripresi dalle telecamere, per realizzare uno spettacolo che andrà in scena appena i teatri riapriranno. I sei personaggi in cerca di uno spettacolo sono Alfredo Angelici, Federica Carruba Toscano, Pier Giuseppe di Tanno, Licia Lanera, Pier Lorenzo Pisano, Matilde Vigna. Ogni giorno danno vita a Zona Rossa, un esperimento senza precedenti e un’occasione unica per assistere a tutte le fasi del processo creativo: dal training ai movimenti, dalle letture a tavolino alle prove aperte (strepitose finora quelle di Faccia al muro di Martin Crimp e La tour de la Défense di Copi), ma soprattutto le discussioni che animano quello che a tutti gli effetti può essere considerato un parto, sicuramente il momento più intimo di una creazione. Ideato da Daniele Russo (direttore artistico del Teatro Bellini) e Davide Sacco, “Zona Rossa” è anche la prima risposta fattiva a un vulnus istituzionale che ormai va avanti da quasi un anno. Ne abbiamo parlato con Daniele Russo.

 

 

 

Anziché proporre teatro in streaming, avete pensato di farci assistere all’atto creativo. Come è nata l’idea?

Era da marzo che proponevo questa idea nelle riunioni con i teatri. Quando si parlava di streaming ho sempre pensato si potesse al massimo far vedere il processo creativo. Come Teatro Bellini, per esempio l’unica cosa che facemmo nella prima fase, fu prendere le registrazioni di spettacoli che erano andati in scena, estrarre le tracce audio e creare un podcast, dando vita a una rubrica che si chiamava Ascoltiamo il teatro. In questo modo potevi scontrarti con il radiodramma – formula per la quale c’è consuetudine e che può funzionare molto bene -, ma non abbiamo mai ipotizzato di mandare gli spettacoli in diretta streaming. Nella disperazione, nel momento in cui non abbiamo avuto più certezze e nemmeno dubbi e non sapevamo più quale fosse il nostro compito, capisco – e lo dico senza nessun giudizio – che molti teatri si siano affannati ad andare online con lo streaming. Sarà perché sono nato e cresciuto nel teatro, ma non ci ho mai creduto….

 

Perché?

Penso abbiamo dei parenti più ricchi che si chiamano cinema e tv che parlano il nostro linguaggio. Noi – parlo come linea editoriale del Bellini – non siamo la danza né la lirica, abbiamo un linguaggio che è quello del teatro di parola , quindi se spogli la drammaturgia del trucco teatrale che cosa rimane? Se ho una videocamera a quel punto converrebbe che il Ministero ci dicesse di fare dei film con quei meravigliosi testi, perché in Italia si scrive meglio per il teatro che per il cinema, di questo sono fieramente convinto. Con Davide Sacco abbiamo ampliato questo discorso, ci siamo legati provocatoriamente al DPCM ed è nata un’azione che è a metà tra un’azione artistica e politica. Artistica perché mettere al centro la figura degli artisti, del tempo creativo, della libertà delle scelte credo sia fondamentale e vincente e può essere l’unica strada per riappropriarsi del teatro quando usciremo da tutto questo; politica perché non essendo mai all’interno del discorso politico se non accomunati al gioco d’azzardo con le sale Bingo e le sale scommesse, volevamo fare una provocazione: incatenarci simbolicamente al teatro, rimanere chiusi dentro in questo sciopero della fame, in questa mancanza di uscita finché qualcuno non si accorgerà di noi e non ci libererà restituendoci la giusta dignità.

 

 

Al momento ancora non c’è un data prevista, forse quando tutto è cominciato i sei protagonisti pensavano di uscire il 15 gennaio?

Al 15 gennaio non hanno mai creduto, abbiamo fatto una scommessa, ognuno di noi ha detto una data e il più ottimista parlava comunque di inizio febbraio… Io addirittura dell’8 marzo. Speriamo… Nel frattempo vedi le immagini della presentazione della nuova giunta della regione Lombardia e trovi un’aula iper affollata con persone che non rispettano il distanziamento, e ti chiedi perché se a noi teatri hanno chiesto di metterci in regola, e lo abbiamo fatto investendo dei denari, non viene data la possibilità di fare il nostro lavoro? Peraltro in un settore che è sicuro e che potrebbe essere di grande conforto in un momento di crisi identitaria.

 

I sei artisti sono di provenienza molto diversa e non avevano mai lavorato tra di loro. Come li avete scelti?

È stata una scelta rischiosa e ponderata, abbiamo voluto rispettare le pari quote – sono tre donne e tre uomini – e ipoteticamente volevamo quanti più stili e pensieri teatrali fosse possibile. Questo ha dato luogo a meravigliosi dibattiti intorno al teatro, non sterili conferenze, ma discussioni legate a un’azione fattiva, ancora più interessanti perché legate a quello che stanno facendo e devono fare. C’è Pier Giuseppe di Tanno che viene da un teatro performativo, Alfredo Angelici dal mondo del nonsense e dello stupid, Federica Carruba Toscano che ha il duende perché è tutta anima, Matilde Vigna che è una sorta di caterpillar di pensiero, di testa e gli stessi Licia Lanera e Pier Lorenzo Pisano, lui mitteleuropeo, lei con questa radice mediterranea forte. Sono tutti meravigliosamente bravi, ma la sfida era proprio questa… Sono convinto che se riusciranno – e secondo me ce la faranno perché sono sei artisti e sei persone con una grande consapevolezza e con grandi mezzi umani oltre che teatrali – a mettersi realmente insieme facendo dialogare questi stili, potrebbero fare veramente qualcosa di alto, teatralmente parlando. Poi abbiamo messo il fallimento come base di partenza per l’operazione, fin dalla presentazione abbiamo detto che qualora non uscisse nulla da questa azione, va bene lo stesso, ci saremo presi un tempo di studio e avremo fatto conoscere anche il fallimento che c’è dietro una creazione artistica. 

 

 

La sfida è su vari fronti, anche quello di essere costantemente sotto l’occhio delle telecamere…

Appena si è saputo di Zona Rossa ci hanno definiti “il Grande Fratello teatrale”. E noi rispondiamo che va bene, ci fa gioco, se serve a portare 10 spettatori voyeurs in più che non avrebbero mai visto il teatro, non siamo schizzinosi perché poi ci sono le tematiche che i sei affrontano, il livello, la discussione interna che ci protegge da qualsiasi tipo d’attacco (che infatti non c’è stato, se non agli albori quando non si sapeva di cosa si trattasse). L’azione nostra non è pornografica, ma erotica perché ti fa vedere il bello e non anche l’intimo a tutti i costi, i nostri sei protagonisti non vengono spiati in bagno o quando dormono, ma penso sia molto più complesso per loro perché a un certo punto ti abitui alla telecamera che ti segue in bagno, ma non credo sia possibile abituarsi all’idea di essere violato nel momento della creazione che molto più intimo perché è l’unico momento in cui siamo abituati a poter sbagliare, è fatto di fallimenti continui, su 10 cose che fai un giorno una è buona e nove sono da buttare. Da questo punto di vista darsi in pasto al settore, allo spettatore, non è facile e i nostri sei protagonisti sono straordinari perché riescono comunque ad andare avanti e anche a fregarsene di tutto questo…

 

Rispetto al Grande Fratello semmai è interessante il ribaltamento che Zona Rossa opera perché dimostra che se ci sono i contenuti può avere un senso. Se metti persone intelligenti che hanno delle cose da dire su un argomento che conoscono a fondo, è un’occasione incredibile poter assistere.

Sì, emerge una critica feroce al mondo della tv perché è la dimostrazione che i contenuti alti possono entrare anche mentre prepari una minestra. Non è che perché stai facendo una cosa banale devi sentir parlare solo del nuovo fidanzato di Belen. E c’è anche una critica a come viene trattato il teatro in televisione. Il teatro ha forza solo se fa il teatro. Se arriveremo al giorno in cui del teatro non ci dovesse più essere bisogno, ne prenderemo atto. Sarebbe una sconfitta per tutta la mia vita, ma piuttosto metto questa come opzione, ma non che il teatro possa mutare. Il teatro muta sulla scena perché ogni spettacolo è diverso da se stesso e perché noi sperimentiamo da 2000 anni sul palcoscenico i linguaggi, le scritture, ma è qualcosa che avviene sul palco.

 

 

Che indicazioni avete dato ai sei prima che si chiudessero in teatro?

Abbiamo fatto il solito gruppo WhatsApp e, a scopo motivazionale, mandavo spunti di cronaca di cose che mi colpivano in quel periodo, ma fondamentalmente l’unico paletto che abbiamo messo era di non fare la riscrittura di un classico, ma di cercare di uscire da lì con un testo di drammaturgia scritto da loro. La fine dell’ultima riunione fu: «Se però alla fine vi innamorate di un’idea dell’Amleto fate un po’ come volete» (con un linguaggio un po’ più colorito). Lo dico perché Licia citava spesso questa mia frase quando ruotavano intorno al tema da affrontare. L’idea era quella di far emergere un testo perché ero certo che l’esperienza sarebbe stata preponderante rispetto all’idea di fare un Amleto, però se ne avessero sentito l’esigenza sarebbe andato bene lo stesso… Ho anche detto che avrebbero potuto fare due spettacoli se ci fossero stati due filoni narrativi che li avessero interessati e che non volessero abbandonare perché purtroppo – o per fortuna – avrebbero avuto il tempo di farlo.

 

Libertà totale: anche questo è qualcosa di inedito nei meccanismi produttivi.

Si è rivelato essere un altro esperimento sociologico. Anche noi che abbiamo l’onere e l’onore di dirigere un teatro, mica facciamo sempre quello che veramente ci va di fare… Ti scontri sempre con il fantomatico mercato, con il numerificio al quale siamo oramai ridotto come aziende, perché siamo aziende che fanno numeri, non siamo aziende culturali che fanno piani editoriali. Poi chiaramente ci provi, ci riesci, se ne hai le capacità però, tendenzialmente, la richiesta ministeriale ti spinge da una parte che di autorale o editoriale ha ben poco… Diventa quindi un esperimento sociale vedere se siamo ancora in grado di gestire questa libertà espressiva senza tempi, senza oneri, perché paradossalmente è una novità. Normalmente si lavora su commissione, hai 20 giorni per fare quel testo, usare quegli attori, fare quei numeri… Questo è, però, un po’ diverso dalla mission che dovremmo avere. Che fai in un periodo del genere? Ti arrendi e stai fermo in attesa di poter tornare a fare questa corsa inutile oppure cerchi di sottolineare che è una corsa inutile? Abbiamo provato questa strada.

 

 

Un’ultima domanda. Da parte delle istituzioni avete avuto qualche risposta, commento, incoraggiamento?

Zero totale, a parte l’assessore alla cultura del Comune di Bari che mi ha espresso il suo apprezzamento. La risposta che speriamo di ottenere è quella di avere una risposta, non ci interessa neanche avere complimenti o affini, vorremmo risposte, certezze e considerazione perché una delle cose che mi ha fatto stare peggio in questo periodo infimo è stato essere continuamente associati a sottocategorie. Mi viene da fare lo snob, ma non sento di avere lo stesso ruolo di una sala Bingo. Ho avuto amici con il “problema del gioco”, se il “problema del teatro” ce l’avessero in tanti vivremmo in una società migliore. Anche i quotidiani nazionali non sono stati d’aiuto con titoli in cui scrivevano che “Sale Bingo, centri scommesse, teatri e cinema” – peraltro proprio in quest’ordine – avrebbero chiuso. Ti casca il mondo addosso, ti chiedi che mestiere fai. Il gioco d’azzardo fa male, noi no. In questo Paese già non abbiamo la dignità di mestiere, non puoi toglierci anche la dignità morale del gesto.

 

Zona Rossa è sul canale YouTube del Teatro Bellini