Il rigore e la tenerezza: incontro con Céline Sciamma

Sai, i segreti non sono necessariamente qualcosa
che cerchiamo di nascondere. È solo che non abbiamo nessuno a cui dirli.

 

 

I film di Céline Sciamma hanno cambiato la vita a tantissime persone. Nel mondo reale ne è prova evidente l’accoglienza da rockstar che il pubblico le riserva, quando li presenta in sala (in quello social, il suo profilo Instagram, seguitissimo dai fan). Succede anche a Milano, al cinema Anteo, durante il tour italiano per accompagnare Petite Maman, miglior film ad Alice nella Città alla Festa del cinema di Roma, al cinema dal 21 ottobre con Teodora, a dieci anni esatti da quando portò nelle sale italiane il suo secondo film, Tomboy (il primo, Naissance de pieuvres, è inedito da noi) e a sei dal successivo Diamante nero (Bande de filles). Petite Maman sarà disponibile in streaming su Mubi nel 2022, ma il consiglio di chi scrive è di vederlo prima sul grande schermo. Il prima possibile. C’è una ragione di più che lega il suo ultimo lavoro all’Italia: il desiderio di riannodare legami intergenerazionali, seguendo una linea narrativa verticale e femminile che con un colpo di invenzione giocosa si fa orizzontale. Verso una nuova, immaginifica mitologia familiare fondata sull’uguaglianza, il dialogo alla pari tra bambini e adulti, il rispecchiamento. La prima parola pronunciata nel film  – “Alexandrie”, che dà il via alla storia come un enigma alla “Rosebud”, da decifrare – evoca infatti il Paese natale della nonna paterna della regista, Carla Morpurgo Sciamma, che Céline porta con sé nel secondo nome. Scomparsa poco dopo la fine delle riprese del film (“che ha fatto però in tempo a vedere”), è una figura fondamentale nella formazione della regista (“è stata lei a farmi conoscere il cinema”) e sarà sempre per lei una stella polare. Figlia di Nelson Morpurgo, cosmopolita, avvocato e poeta italiano nato al Cairo. Amico di Tommaso Marinetti, fondatore del Movimento Futurista in Egitto, ebreo convertito al cattolicesimo, negli anni ’50 stabilitosi a Rimini. Il motivo egizio della piramide (il distributore francese di Sciamma è Pyramide), analogamente alla montagna per Spielberg, ricorre anche in una scena chiave in esterni del film, girato in cinque settimane a Cergy-Pontoise.

 

 

“Tutti gli interni delle case sono stati girati in studio, e si ispirano alle case delle mie nonne (ringraziate nei titoli di coda, ndr) mentre gli esterni nella città dove sono cresciuta, compresa questa piramide, creata dall’artista Dani Karavan, è una città nuova, realizzata da zero negli anni ’70, quindi rispetto alla quale sono solo un po’ più giovane. Da un lato si collega al mondo della mia infanzia e ha anche delle qualità cinematografiche particolari. In più c’è un collegamento con il mio cinema: in Naissance de pieuvres le due protagoniste scrutano l’orizzonte guardando la piramide ritrovandosi su quest’asse che guarda la Défence, che richiama l’altro mio film, Diamante nero”. 

 

Céline Sciamma sul set di Petite maman

 

Senza mai perdere di vista la precisione della composizione, i film di Céline Sciamma dispiegano una qualità raffinata di scrittura e messa in scena. Sono essenziali e al tempo stesso accendono un’identificazione immediata, una affinità emotiva diretta coi personaggi. Rigore e tenerezza. Ne è un esempio il manifesto di Petite Maman, che intercetta il bisogno più avvertito nell’isolamento, quello del contatto fisico che mette fine alla solitudine. Un’immagine dall’emotività semplice, universale, senza tempo. Un mélange che si manifesta anche nella generosità fuori dal comune con cui la regista risponde alle domande del pubblico e dei giornalisti. In ogni risposta risuona un’intelligenza, una delicatezza di tocco e una passione per ogni aspetto di scrittura e regia, oltre che per la storia del cinema: nel citare per esempio Andrej Tarkovskij, nel suo dire che ogni film è un viaggio nel tempo. O nell’affermare che un film si fa anche come atto di consolazione e come stimolo alla trasformazione di sé stessi. 

 

 

“Avevo in testa questa storia da cinque anni. È comparsa mentre stavo scrivendo Ritratto della giovane in fiamme. Mi portava verso di sé, mi attirava. Ritratto è un film la cui scrittura ho dovuto abbandonare più volte, perché era una sceneggiatura complicata, e sapevo che sarei approdata a questo film. Ho cominciato a scriverlo molto rapidamente, dopo Ritratto. Ma dopo una settimana è arrivata la pandemia, che ha accelerato tutto il processo. È diventato ancora più urgente che la raccontassi, perché i bambini stavano facendo i conti con la perdita intergenerazionale e la pandemia. Volevo a tutti i costi che fosse finito per quando i cinema avrebbero riaperto. E ovviamente, anche se è stato concepito come un’idea a-temporale, è totalmente carico dell’umore di quegli ultimi mesi, soprattutto perché abbiamo girato soprattutto durante il lockdown, il secondo, in Francia. Siamo andati sul set attraversando strade deserte, entravamo in una “scatola” per fare cinema, avevamo il privilegio di poter guardare i volti scoperti degli attori, che si toglievano la mascherina un momento prima di girare. In un contesto di quel tipo, fare cinema ha assunto una sacralità ulteriore”.

 

C’è un doppio equivoco per cui spesso si tende a definire “piccoli” i film brevi (Petite Maman dura 72 minuti), oppure semplicemente perché si occupano di attori bambini.

“Già, circola quest’idea per cui quando parli ai bambini devi semplificare tutto, mentre io penso che quello infantile sia il pubblico più contemporaneo che si possa avere. Ecco perché il mio punto di riferimento è stato Hayao Miyazaki: non fa film per bambini, fa cinema. Se pensi che i bambini siano i tuoi spettatori, loro possono aiutarti a essere poetico, più radicale, perché non hanno un background culturale e un’aspettativa sul cinema. Sono semplicemente felici quando incontrano nuove idee, vogliono sapere, sono curiosi. Credo sia per questo motivo che scelgo personaggi non adulti, e anche il motivo per cui penso sempre ai bambini, quando scrivo. Prima di tutto puoi diventare più commovente, emotivo, diretto, nella comunicazione delle tue emozioni. E poi puoi letteralmente creare un linguaggio molto poetico, perché essendo liberi, lo possono assimilare, fare proprio”. 

 

 

Sciamma è molto amata per l’esattezza con cui compone l’inquadratura e per il valore semantico di ogni elemento della mise en scène. Non a caso la raccolta di saggi che indagano la sua filmografia fino a Petite Maman si intitola Architetture del desiderio (Asterisco edizioni, a cura di Federica Fabbiani e Chiara Zanini). Non lavora su storyboard, quindi ci  viene da chiederle se vada sul set con in mente già chiara la definizione di ogni inquadratura o lascia un margine di casualità…

“Entrambe le cose. Considero la sceneggiatura finita quando in ogni scena ci sono molte idee che mi stanno a cuore: sceneggiatura, parole, ma anche un’idea di messa in scena a cui tengo molto, visto che la realizzazione di un film ha molto a che fare con il venire a patti con la realtà. Nel caso di Petite Maman girare in studio ha permesso un livello di intervento che è uno spazio sicuro per le idee. Amo girare in studio perché disegnare lo spazio non vuol dire solo disegnarne uno bello, o che ti fa sentire bene, ma disegnare il ritmo: quando disegni un corridoio lungo sei metri, questo ha direttamente a che fare con il ritmo del personaggio, con il modo in cui cammina. Sono molte le idee a cui tengo e che posso condividere coi miei collaboratori, i quali poi ovviamente le espandono, le arricchiscono. Nei giorni delle riprese mi sveglio sempre quattro ore prima di arrivare sul set, per ripensare a tutto di nuovo. Il linguaggio del film si costruisce anche durante le riprese, e il corpo, la presenza fisica dei protagonisti cambiano il linguaggio del film”.    

 

Il film ribadisce di continuo la non necessità degli effetti speciali. Tutti gli elementi di racconto sono o effetti di montaggio o soluzioni fisiche, integrate nella scenografia, non realizzate in post produzione (una carta da parati, un armadio a muro, una staccionata che fa da confine…). È come se tornassi un po’ al cinema delle origini, ai trucchi di Méliès.    

“L’ho fatto molto intenzionalmente, pensando intensamente a quel tipico realismo magico che nel cinema è stato inventato anche da donne, come Alice Guy o Germaine Dulac. Il film è anche una celebrazione del cinema, in un certo senso. Non so se esista un movimento di ritorno alle origini, ma so per certo che si stanno girando moltissimi film in studio, anche a causa della piattaforma. E specialmente durante la pandemia. Ma si possono fare molte cose diverse, in uno studio. Sta accadendo, ed è il contrario di quello che è successo in Francia con la Nouvelle Vague, vedremo cosa porterà. Credo che sia un’opportunità per costruire un nuovo linguaggio del cinema e potrebbe essere interessante”.

 

In Petite Maman saranno confluiti anche i tuoi ricordi cinematografici di bambina e adolescente. 

Il film è all’incrocio tra due tradizioni: il cinema della mia infanzia, i film di Spielberg che ho molto amato e che hanno i bambini come protagonisti, e un film di Penny Marshall, Big, che è la storia di un bambino che vuole stare con una donna adulta e si conclude con un campo/controcampo tra loro. In questo si ricollega all’infanzia del cinema, cioè gli albori delle pioniere del realismo magico, le donne che citavo e che hanno accompagnato Georges Méliès, adottando una serie di tecniche per realizzare questi film: il montaggio interno, il magic in the cut“.

 

Un altro elemento di identificazione immediata con i personaggi sono i costumi, che hanno un peso analogo al lavoro sulla composizione del quadro. Una salopette di jeans o di velluto, un maglione di lana, degli scarponcini, mettono subito in connessione lo spettatore con i ricordi infantili.

“Mi occupo del reparto costumi perché mi piace molto farlo, ma anche perché prima ne parlo col mio team: si tratta dei colori e dei materiali da portare, delle descrizioni da dare al set designer e al direttore della fotografia. In questo film in particolare, che viaggia nel tempo ed è collocato in un momento senza tempo, che potrebbe essere negli anni ’50 o nel 2021, è qualcosa di molto controintuitivo. Claire Mathon, la direttrice della fotografia, si chiedeva come avremmo “scolpito” il tempo. I costumi sono tutti nuovi, di oggi, ma in qualche modo sono senza tempo. Ho fatto molte ricerche su cinquant’anni di fotografie degli alunni nelle scuole della periferia parigina, dove sono cresciuti i miei e anche io, e ho cercato di intercettare le cose comuni nelle nostre infanzie. Visto che non faccio prove coi bambini, occuparmene è anche un modo di costruire la relazione e il personaggio, perché li vesto, guardo se si piacciono, se si trovano a loro agio in quei vestiti. Per loro è un modo di sentire il personaggio, e di sentirsi anche un po’ eroici. 

 

 

Il lavoro che faccio con loro è molto simile a quello che faccio con gli adulti o con degli attori professionisti. È vero anche quello che sta dietro all’infanzia sta dietro anche al femminile, come se il fondamento, la base, arrivassero a coincidere. Ossia l’integralità della persona, della personalità, del corpo, della volontà di scrutare se stessi e la vita. C’è qualche cosa che accomuna l’infanzia alle donne, all’aspetto femminile, e i bambini subiscono in qualche modo lo stesso maltrattamento o la stessa negligenza, per meglio dire. Il detto “prima le donne e i bambini” ha veramente qualcosa di menzognero e patriarcale, assolutamente ipocrita. Mi accorgo che quello che mi interessa è lo sguardo dei bambini, non tanto in termini di altezza della macchina da presa, ma di profondità stessa del loro sguardo. Mi accorgo che nei miei film guardo un personaggio che guarda, e in quel suo sguardo c’è la volontà di capire, di amare, di comprendersi. È come se nella profondità di quello sguardo ci fosse il legame profondo che c’è con il fare cinema, con il fare film. La differenza del lavoro tra bambini è adulti sta solo nel fatto che coi primi non si può lavorare più di tre ore al giorno, e che hai una responsabilità etica enorme nei loro confronti. Devi insegnare loro il linguaggio del cinema, ma le due protagoniste dopo un paio di giorni se ne sono impossessate e allora è stato possibile iniziare a costruire insieme la grammatica del film che si sta facendo insieme, condividendo le idee che stanno alla base del film. Sono molto ricettive e pronte a condividere quello che pensano”. 

 

Le sorelle protagoniste, Joséphine e Gabrielle Sanz, sono straordinariamente a loro agio.

“Ho cercato due sorelle nella vita, che interpretassero le due sorelle nel film, perché mi sono sempre detta che se avessi incontrato mia madre bambina l’avrei forse considerata come una sorella, e questa è la questione che stava alla base del film sul piano personale. Ogni giorno sul set tentavo di condividere le idee e le emozioni, sottolineavo il fatto che erano le loro idee, e le loro emozioni che venivano fuori nei personaggi che interpretavano. E via via, creando l’ambiente, le situazioni, il mood, dicevo loro: immaginate che lo spettatore sia nella posizione di qualcuno che sta guardando un film horror, o di spionaggio, o d’amore… Abbiamo letteralmente giocato insieme e in questa possibilità di gioco condiviso, per loro non c’era il rischio di smarrirsi nell’architettura del film. Anzi, si sentivano in vantaggio perché naturalmente conoscevano una serie di cose che gli spettatori non sapevano. Parlavo continuamente con loro tra un ciak e l’altro, non le ho mai lasciate sole. Ho continuato a cercare un legame. I bambini non improvvisano, vanno guidati nell’interpretazione di un testo che devono interpretare”.

 

 

Anche l’elemento naturale ha un ruolo nell’evoluzione dei personaggi.

Il bosco è uno spazio assolutamente democratico, accessibile a tutti. Ha una sua bellezza intrinseca, dato dai suoi colori. Nonostante questo, può esserci anche un intervento da parte nostra per esaltarlo. Anche se abbiamo girato in autunno, il bosco in cui abbiamo girato Petite Maman era ancora estremamente verde. La natura intorno l’avrei voluta più colorata, quindi abbiamo raccolto dei sacchi di foglie colorate sulle tonalità del giallo e del rosso, che abbiamo sparso a piene mani. La direttrice della fotografia si arrampicava sugli alberi per mettere la foglia di un certo colore. È un intervento sulla realtà – che può essere generosa nella sua bellezza – che è tipico del cinema. Perché il cinema è questo: intervenire sul reale. La prima volta che ho avuto la percezione dell’esistenza del ruolo di un regista è stato vedendo Le Parapluies de Cherbourg e Les Demoiselles de Rochefort di Jacques Demy. Quando ho capito che nei suoi film ridipingeva la città. Una città esistente, ma su cui era intervenuto, per potenziarne la bellezza”.  

 

L’intervento musicale, invece, è limitato al minimo.

“La decisione della musica da mettere o no in un film arriva per me in una fase molto precoce della scrittura, perché se poi decido di non avere una colonna sonora, c’è un impatto e una musicalità che deve essere trovato altrove. In questo film volevo trovare un realismo nel tempo e nello spazio comune di queste due case, speculari e identiche, in cui volevo che ci fossero gli stessi rumori, la stessa vibrazione del frigorifero, per esempio. Ho lavorato con il tecnico del suono per creare lo stesso universo di suoni e rumori negli ambienti, affinché ci fosse una sorta di magia in una drammaturgia sonora, che fa sì che uno può aver voglia di piangere però non le sentiamo queste lacrime. Avevo voglia che questa avventura infantile si concludesse con dei titoli di coda che richiamassero i fumetti dell’infanzia e che contenessero un inno che esaltasse l’essere bambini. E ho scritto questo testo che è l’inno infantile al futuro, affinché ci accompagni nel futuro.  

 

 

Per te parlare di bambini è un gesto anche politico, un modo per dare voce a una parte del mondo che non ne ha.  

Il film è dalla parte dei bambini. Durante la pandemia ci siamo resi conto di come sono stati considerati dei cittadini di serie B. Vediamo come vengono usati, sfruttati per ogni lotta politica, pur non avendo loro nessun peso nelle decisioni, vengono utilizzati in appoggio a teorie politiche. Sentiamo dire da sempre che le cose miglioreranno grazie ai nostri figli, che sapranno fare meglio di quanto abbiamo saputo fare noi. Ma se si crede veramente in questa idea, bisogna affiancare i ragazzi nelle loro lotte, permettere loro di portare avanti le loro battaglie, perché se poi il mondo li opprime, farà di loro solo dei cittadini infelici. Sicuramente sono stata una figlia più progressista dei miei genitori, eppure la Francia oggi è sull’orlo del fascismo. Bisogna lottare, perché i ragazzi possano esprimere il loro spirito”. 

 

 

 

Le voci dei bambini canteranno nuovi sogni
Il sogno di essere un bambino con te
Il sogno di essere finalmente lontano da te
Il sogno di essere un bambino lontano da te
Il sogno di essere un bambino finalmente con te

La canzone non avrà paura di dire cos’hai in mente
Se il mio cuore è nel tuo cuore
Se il tuo cuore è nel mio cuore
La mia canzone non avrà paura di dire cos’hai in mente
Il mio cuore, il mio cuore è nel tuo cuore

Mon coeur, in La musique du futur

(Testo di Céline Sciamma, musica di Para One e Arthur Simonini)