Il tempo che passa, e tanto cinema, nell’album La Signora Marron di Franzoni/Zamboni

Musica che evoca il cinema, consapevolmente, citandolo con proprietà e con il gusto della (ri)scoperta. È una delle ricchezze da cogliere dentro La Signora Marron, album firmato Franzoni/Zamboni, uscito in gennaio (sia in vinile che in digitale) per l’etichetta Bluefemme Stereo Rec. Quella tra il songwriter Manuele Zamboni e il cantautore, musicista e produttore Marco Franzoni – entrambi bresciani – è un’amicizia che dura da vent’anni e comprende la condivisione dell’avventura musicale dei Noverose, oltre che la costante collaborazione nelle rispettive carriere soliste; eppure l’idea sempre presente di scrivere canzoni a quattro mani non era mai sbocciata del tutto, in precedenza. Poi è arrivata la clausura, sovvertendo impegni e priorità, e il momento è sembrato finalmente quello buono. Ma i due non erano convinti fino in fondo, nonostante si fossero ritrovati tra le mani una quantità sufficiente di materiale che appariva scintillante: per indurli al passo discografico c’è voluta la spinta decisiva di Omar Pedrini, già anima dei Timoria e sodale di entrambi: “Cosa aspettate – ha buttato lì con entusiasmo lo Zio Rock dopo l’ascolto – a far uscire questi brani?”. Poiché il disco è un viaggio magicamente senza tempo (e senza vento, giusto per citare nuovamente i Timoria, un gruppo che ha lasciato un segno tangibile nel rock italiano), non ci siamo accontentati di prendere atto che sono dieci canzoni d’autore con una bella anima rock e un’atmosfera inconfondibilmente tex-mex, un po’ come se Enzo Jannacci avesse invitato a cena i Calexico, scegliendo come colonna sonora del rendez-vous il repertorio di frontiera di Bob “Nobel” Dylan. Volevamo saperne di più, per cui abbiamo intervistato entrambi gli autori.

 

 

 

Marco e Manuele: cominciamo dal titolo. Sa tanto di Paolo Conte, forse l’unico che è capace di trasmettere un fascino speciale a un termine démodé qual è “marron”, come in effetti fa in La ricostruzione del Mocambo…

MZ – Conte è tra i nostri numi tutelari, insieme a Bob Dylan, Calexico, Townes Van Zandt, Piero Ciampi, Daniel Lanois, T Bone Burnett ed Enzo Jannacci. Nel caso specifico dello chansonnier astigiano, l’influenza non è tanto a livello di sonorità, ma di ispirazione generale.

 

La Signora Marron è un concept-album?

MZ/MF – Non lo è. E il motivo è non esiste un unico filo conduttore, un tema seguito con applicazione. Affiora però un’idea che pervade un po’ tutte le tracce, sia pure in maniera diversa per ciascuna di esse: il senso del trascorrere del tempo, con i rimpianti, le nostalgie, le ferite, la quotidianità con la sua noia e le sue incertezze. Ecco: ci piace definirlo un disco con un’idea.

 

Romanzo popolare di Mario Monicelli

 

Tra le dieci tracce, risplende una cover, quella di Vincenzina e la fabbrica, che Enzo Jannacci scrisse per la colonna sonora di Romanzo popolare di Monicelli. La vostra versione ne mantiene le caratteristiche originali, ma la rende meno dolorosa, con un’esecuzione molto pulita, che privilegia l’aspetto narrativo rispetto alla denuncia. Perché l’avete scelta?

MZ – Alla base c’è una tripla passione, che è perfino difficile argomentare: quella per un cantautore straordinario come Jannacci, per quella canzone in particolare, e per il film stesso, le cui qualità vanno oltre la musica.

 

Vi alternate, democraticamente, alla voce principale. Per il resto, vi siete ulteriormente divisi i compiti?

MF – No: abbiamo fatto tutto insieme. È davvero un disco a quattro mani…
MZ – …anche se io scrivo con una mano sola e Marco pure: non ho mai capito bene questa storia delle quattro mani…

 

Il sound è chitarristico, ma con una ritmica che ipnotizza, mentre i fiati sono in certi momenti addirittura trascinanti. Chi ha collaborato con voi?

MF – È stato decisivo l’incontro virtuale con il batterista americano Jonathan Womble. Lo abbiamo “scoperto” in rete durante il lockdown e ci siamo resi conto che volevamo esattamente quel suono. Tra le presenze fondamentali a livello di produzione, non dimentichiamo però Francesco Venturini, che ha suonato e arrangiato i fiati, quindi Beppe Facchetti (batterista dei Superdownhome, lanciatissimo duo di rural blues – ndr) e il bassista Matteo Crema. Lo zoccolo duro della squadra che ha confezionato il disco è questo, sebbene l’elenco dei crediti sia in realtà molto più lungo.

 

Nella musica e nei testi si sentono i richiami di moltissimi ascolti rielaborati in chiave personale. Anche oltre la forma classica della canzone, come nell’avvolgente Controluce, un pezzo che guarda sia a Dylan che a certe sperimentazioni di De Gregori…

MZ – A volte ci siamo divertiti a destrutturare le canzoni, seguendo un andamento non esattamente classico. Siamo partiti da immagini sonore o cinematografiche e ci abbiamo lavorato sopra, cercando di non scimmiottare nessuno. Anche se, visti gli innumerevoli ascolti di certi autori, è fisiologico che alcune influenze si sentano più di altre: rispetto ai Calexico, ciò avviene di sicuro.

 

Oltre il giardino di Hal Ashby

 

Il respiro cinematografico si sente forte in Oltre il cortile, che nel titolo sembra in parte richiamare il magnifico film di Hal Ashby con Peter Sellers, ma nel sound fa pensare decisamente al Dylan western di Pat Garrett & Billy The Kid

MZ – Il tema di Billy, per quanto mi riguarda, è fonte di ispirazione costante…
MF – Credo che il brano sia forse l’esempio più compiuto di un determinato suono meticcio, con una ritmica non troppo scontata, a suo modo polverosa e sexy, che avevo sperimentato qualche anno fa e che, insieme a Manuele, ho fortemente voluto per La Signora Marron.