Linee di confine, storie in transito tra le terre che si appartengono a vicenda e che la Storia pretende di separare: siamo tra Spagna e Portogallo, in Galizia, il confine più antico d’Europa, confluenza di culture, popolazioni, storie. È qui che Iván Castiñeiras Gallego trova il suo film Deuses de pedra, ennesimo lavoro che a Rotterdam54 (dove figura nel concorso Bright Future) parla di ragioni identitarie legate a confini e sconfinamenti, perfettamente in linea con i nostri tempi… Galiziano, Iván Castiñeiras Gallego (che ora vive e insegna cinema a Barcellona) ha trovato nella sua terra d’origine questo film che, tenuto in cuore e in macchina per una quindicina d’anni, racconta non la Storia di quella terra e tutto sommato nemmeno le storie delle tante persone di quei villaggi, che pure ha coinvolto abbondantemente e profondamente: Deuses de pedra è piuttosto un film sentimento, trovato nell’umore di esistenze che si susseguono nei tempi, un po’ uguali eppure sempre diverse. Anche perché i tempi cambiano e le coordinate geografiche non bastano più a tenere insieme le vicende…
Con un piglio da antropologia visuale applicata alla narrazione intima, Iván Castiñeiras Gallego parte dai propri vissuti e giunge a una coralità che rappresenta nel presente l’arcaica tensione del tempo di quella terra, ma via via lascia scomporre la cronologia della narrazione in un sovrapporsi libero e quasi estemporaneo di eventi trascorsi e accadimenti attuali. E allora, per esempio, alla rievocazione del padre emigrante degli anni ’50 succede la presa (quasi) diretta del fratello di oggi che dice alla sorellina in lacrime che deve trasferirsi a Valencia in cerca di lavoro. Alle scene degli anni ’90, coi bimbi dell’asilo che piantano fagioli assieme alle maestre nel giardino della scuola, succedono quelle dei contadini d’oggi che compiono lo stesso gesto nelle loro terre, mentre l’asilo di ieri è ora chiuso e i pochi bimbi e ragazzi rimasti nei villaggi devono prendere il bus per andare a scuola. In Deuses de pedra, dunque, la storia privata e quella collettiva si assommano in un flusso che produce il sentimento del tempo e fa della forma narrativa adottata dal film una sorta di genius loci ideale, in cui il cinema trova l’essenza di un filmare in transito che è libertà e ratio del gesto, magari anche naïf, ma pur sempre immediato e autentico.