Come sempre nel cinema di Sandro Aguilar la narrazione implode in quel magnificente grumo visivo e sonoro che sono i suoi film: lo si attendeva da un po’ Primeira pessoa do plural, il suo terzo lungometraggio dopo A zona (2008) e Mariphasa (2017) e una quantità di corti realizzati prima e dopo (spesso visti in Onde, al Torino Film Festival), a comporre la scena di un immaginario quasi astratto. Ed è arrivato puntualmente, col carico illusivo di una chiamata a entrare nel gioco dello scenario allo stesso tempo concretissimo e surreale nel quale inscrive le sue narrazioni performative. In Primeira pessoa do plural (a Rotterdam54 nella Tiger Competition) siamo ancora una volta nel cuore di una famiglia, relazioni confusive, legami illogici che si materializzano con rapsodiche rivelazioni, gesti inconsulti, azioni inattese: il presupposto è qui il ventesimo anniversario di matrimonio che Mateus e Irene passano in un lussuoso resort su un’isola tropicale in preda ai postumi del vaccino, febbre e allucinazioni varie, mentre il figlio adolescente è rimasto a casa e sembra quasi la proiezione della loro libertà mancata oppure della loro dipendenza reciproca. Da una parte e dall’altra è un gioco di visioni, mascheramenti e volti distorti in una ricerca continua del contatto esistenziale, della relazione, che si traduce immancabilmente in enigma, confusione, incertezza, allucinazione. Impossibile trovare una vera e propria storyline in Primeira pessoa do plural, più che altro si tratta di un vapore narrativo, che nebulizza un gioco di relazioni sul quale Aguilar costruisce il mistero di desideri, illusioni, presunzioni, attese di personaggi che non corrispondono a una verità assoluta e in cui ancora una volta è la famiglia, grumo di intimità viscerale e identitaria, a rappresentare la cellula primaria della sua ricerca.
L’incipit dice già tutto: un uomo si aggira in un appartamento col volto interamente coperto da una maschera bianca, quasi una trasfigurazione del killer di Sei donne per l’assassino, a avviare un film che in realtà sembra avere molto di baviano, nel gioco visivo ombrosamente cromatico e nella lucidità delirante di scenari che evocano in una qualche inconscia maniera la Reazione a catena del maestro… L’uomo con la maschera è Mateus, scopriremo, ma i suoi gesti sono maniacali, ossessivi, quasi una danza irrazionale e ironica che attraversa lo spazio domestico e giunge al capezzale della moglie dormiente. Poi c’è il figlio adolescente, presenza quasi anarchica a fronte dell’assetto evidentemente altoborghese della coppia: la sua pulsionalità è come un gioco privo di regole, che si oppone alla danza sociale della coppia in vacanza, destinata a tramutarsi in un vero e proprio delirio. Il setting è uno specchio opaco di riflessi e ombre, dettagli che incidono una scena ingombra di oggetti tra i quali lo sguardo di Aguilar si muove con una innata e irrazionale pulsione indagativa, come spinto dalla necessità di costruire una tessitura visiva nutrita dal mistero della visione. Il contrappunto sonoro offre la profondità di campo all’ambiguità tra la dimensione oggettiva e quella soggettiva che la materia filmica di questo regista cerca con una naturalezza straordinaria, ottenendo per i suoi lavori una qualità visiva (Rui Xavier) e sonora (Alessio Fornariero) ricercatissima, sempre superiore alla media. Primeira pessoa do plural è una coproduzione italiana (La Sarraz, sempre capace di intercettare cinema di qualità) della portoghese O Som e a Fúria, che Aguilar guida assieme a Luís Urbano e che negli ultimi anni ci ha regalato buona parte del cinema portoghese che amiamo di più.