La dolcezza dei suoi film è profonda e limpida, tanto quanto il suo rapporto giocoso e incantato con il Tempo. I film di Ildikó Enyedi si potrebbero raccontare come fiabe, quello che in fin dei conti sono davvero, un po’ magici e un po’ filosofici, sospesi tra le torsioni logiche del Tempo e le disposizioni cronologiche della Storia. A rivederli tutti insieme a Lecce, dove Ildikó Enyedi è presente per l’Omaggio che il XIX Festival del Cinema Europeo le sta dedicando, i suoi film mostrano tutta la loro meravigliosa trasparenza, il senso di quella specie di incantesimo che li nutre, grazie al quale riesce a raccontare storie che descrivono il rapporto tra ragione e destino, determinazione e fatalità, luce ed ombra, libertà e costrizione. Come dire la Storia dell’Uomo attraverso il Tempo, concepita sulla stratificazione tra mito e verità, tra sogno e realtà: entrambi parimenti veri e concreti, entrambi degni del medesimo trattamento, proprio come in Corpo e anima, il film Orso d’Oro a Berlino 2017 (e Nomination per il film straniero agli ultimi Oscar) col quale – finalmente – abbiamo ritrovato questa straordinaria regista ungherese, sospesa per alcuni anni nel limbo televisivo della versione magiara di In Treatment : questione di sedute psicanalitiche di ritorno, forse, dal suo esordio più lontano, quarant’anni fa, quando girò Flirt in stato di trance, facendosi ipnotizzare davanti alla macchina da presa… In apertura un’immagine tratta da Il mio XX secolo.
Magic HunterEra la fine degli anni Settanta, i tempi del Béla Balàzs Studio, il laboratorio più vivace della stagione di rinnovamento del cinema e della cultura ungherese in atto negli anni di János Kádár, quando la scena magiara vedeva margini di libertà ignoti in altre parti del blocco socialista. Al Béla Balàzs Studio la Enyedi ci era arrivata dopo la laurea in economia (giusto la facoltà da cui era scaturita la “rivoluzione del ’56”…) e mentre frequentava l’Accademia di Teatro e Cinematografia di Budapest. Ma quelli per lei erano anche gli anni del gruppo d’arte figurativa “Indigo” di Miklòs Erdèly, artista, architetto, poeta e filmmaker, altra figura centrale della scena underground ungherese dagli anni ’60 sino ai primi ’80. È in questo contesto che Ildikó Enyedi realizza, tra il ’79 di Flirt e l’88 del suo folgorante esordio a Cannes con Il mio XX Secolo, tutti i suoi primi lavori: opere sperimentali tra il documentario e la finzione, in cui testa la relazione tra il soggetto che filma e la tensione psicologica (ma anche sociale) che la macchina da presa può innescare. Nasce così, oltre a Flirt, anche Vakond (The Mole, 1985), altro film sulla separazione tra corpo e coscienza, ispirato però a L’invenzione di Morel di Bioy Casares (su cui pure il nostro Emidio Greco avrebbe lavorato in quegli stessi anni): storia notoriamente dettata dalla presenza di un osservatore caduto dal cielo (letteralmente, col paracadute) su un’isola popolata dagli ologrammi vagamente cechoviani proiettati da una macchina che ne ha registrato i drammi e ne reitera le azioni all’infinito. Di qui alla fabula incastonata come una perla sul crinale tra Otto e Novecento il passo è breve: Il mio XX Secolo giungerà a Cannes come una rivelazione degna della Caméra d’Or e spinge per la prima volta il cinema della regista nella trasparenza del Tempo in cui poi stazionerà con esiti magnifici in tutto il suo cinema: la storia di due orfanelle gemelle, separate in tenera età, in bilico tra epoche storiche, esperienze esistenziali e reazioni al proprio destino è composta come un trattato sul dialogo tra luce e ombra, compreso nelle parentesi di due invenzioni di Edison, la lampadina elettrica e il telegrafo, che segnano il destino dell’Umanità. La femminilità è allo stesso tempo l’emblema di una concezione supina o attiva della Storia, una gemella spinta sulla strada dell’anarchismo bombarolo, l’altra sui letti dei ricchi borghesi, mentre le stelle stanno a guardare dall’alto del cielo e la parabola si conclude (e riunifica) in un labirinto degli specchi in cui le due ragazze si ritrovano. Film magnifico che proviene da un altro tempo del cinema, col suo bianco e nero fotografico e la gestione linguistica come traccia storicistica del filmare stesso (da Méliès in poi…) e che a Lecce è stato presentato nella copia di recente restaurata (molto bene) dall’Hungarian National Film Archive.
L’opera seconda della Enyedi Magic Hunter (Bûvös vadász) è in concorso a Venezia ’94 ed è altrettanto affascinante, complessa, completa: prodotta anche da David Bowie e interpretata dal Gary Kamp degli Spandau Ballet, è una fiaba che cavalca attraverso il tempo il mito faustiano incarnato nell’opera Der Freischütz di Carl Maria von Weber. Gary Kamp vi interpreta un poliziotto segnato da un tragico errore commesso in servizio, che stringe un patto col diavolo, ricevendo in cambio sette pallottole infallibili. Finito nelle trame della grande distribuzione internazionale senza essere adeguatamente valorizzato (oggi è praticamente introvabile in una copia decente…), Magic Hunter resta però un’opera fondamentale per definire lo stile moderno e ardito della regista (per esempio anticipa nel finale il “bullet time” poi inventato dai Wachowski di Matrix), attraversato da salti temporali perfettamente logici, sospensioni e accelerazioni del ritmo narrativo e visivo, temi che innestano la profondità arcaica della tradizione nelle pulsioni più istintive della problematicità del presente. La sua carriera procede, del resto, per grandi passi temporali, senza fretta. Nel ’97 gira un altro piccolo ma film restato nella memoria di quegli anni, Tamás e Juli, realizzato nell’ambito del progetto promosso dalla francese Arte “L’an 2000 vu par”: un altro scavalcamento di campo tra un secolo e l’altro, questa volta tra Novecento e Duemila, scritto su un’altra esplosione, questa volta non la bomba anarchica del Mio XX Secolo, ma quella che suggella tragicamente l’amore recalcitrante dei due protagonisti: lei maestrina d’asilo, lui minatore, innamorati, fatti l’una per l’altro, eppure costretti nell’impossibilità di stare insieme, proprio come i due innamorati di Corpo e anima vent’anni dopo. Premiato al Festival di Belfort, il film distende lo stile e le tematiche della regista in una messa in scena che non risparmia vigore, coraggio e dolcezza e dimostra già quella chiara consapevolezza autoriale che la regista avrebbe mostrato del tutto nel film successivo: Simon Mágus del 1998. Ancora una parabola che attraversa idealmente il tempo, riflettendo nella Parigi contemporanea la sfida tra il primo gnostico dell’era cristiana e San Pietro, reincarnata nella storia di un mago ungherese chiamato in Francia per risolvere un misterioso omicidio e spinto da un suo compatriota rivale ad accettare una sfida che lo vedrà resuscitare dopo essere stato sepolto vivo per tre giorni. Il film segue la sua logica astratta con tutta la docile destrezza filosofica della Enyedi, affidandosi a diversioni sentimentali, tensioni spirituali, ironia esile ma ben riconoscibile, un vago senso della drammaticità storica presente e soprattutto una fluidità registica magistrale. La stratificazione tra sentimento e razionalità, istinto e logica, metodo e intuizione resta nel cuore del film e si spingerà, attraverso gli anni e le opere successive (l’episodio dell’omnibus From Europe into Europe del 2003, il cortometraggio First Love del 2008 e le due stagioni della serie Terápia), sino all’exploit internazionale di Corpo e anima, interludio sentimentale tra una giovane donna autistica e un docile uomo, che tentano di trasportare nella realtà quotidiana del mattatoio in cui lavorano la storia d’amore che vivono ogni notte, sognando lo stesso sogno nelle sembianze di un daino e di un cervo. Il cinema sospeso sul Tempo e sullo Spazio di Ildikó Enyedi continua…