Se n’è andato Bill Russell, il dio del basket

Frank Deford su Sports Illustrated ha scritto nel 1999: “L’unica cosa che sappiamo per certo sulla superiorità nello sport negli Stati Uniti d’America è che i più grandi di tutti sono stati i Boston Celtics di Bill Russell”. Red Auerbach, il leggendario allenatore dei Boston Celtics che ottenne 9 titoli NBA, il primo nel 1957, poi otto consecutivi, dal 1959 al 1966, spiegava:” Jordan è il più grande giocatore di tutti i tempi, non ci sono dubbi, ma se dovessi fondare una squadra e l’idea fosse quella di vincere i campionati, prenderei per primo Russell”.  Un uomo-squadra inarrivabile:”La misura più importante per capire quanto bene avessi giocato una partita era quanto avessi fatto giocare bene i miei compagni di squadra”. I numeri dell’immenso Bill – difensore e stoppatore incredibile, pivot dominante – sono noti ma vale la pena ricordarli: 2 titoli NCAA vinti con San Francisco Dons, 11  anelli NBA con i Boston Celtics compresi 2 da giocatore-allenatore, oro olimpico a Melbourne ’56. Paladino dei diritti civili, controllato nelle sue attività pubbliche dall’FBI che lo classificava nei rapporti come Arrogant negro, Russell nel 1958 accussò l’NBA di utilizzare un sistema di quote per limitare il numero di giocatori neri in ogni squadra.

 

 

Nonostante ricevesse minacce di morte continuò a prender parte alle marce per i diritti civili con il reverendo Martin Luther King (anche se invitava alla reazione;”Non violento è quello che sono prima che qualcuno mi colpisca”). C’era il 28 agosto 1963 a Washington, in occasione della Marcia per il Lavoro e la Libertà, conclusasi con il leggendario discorso di Martin Luther King, quello di “I Have a Dream”; c’era al Cleveland Summit il 4 giugno 1967, organizzato dal running back dei Cleveland Browns Jim Brown per sostenere Muhammad Alì, al quale era stata tolta la cintura di campione del mondo dei pesi massimi per avere rifiutato la chiamata alle armi per il Vietnam. Ci ha sempre messo la faccia, anche con decisioni clamorose come il rifiuto di giocare contro i St. Louis Hawks perché il ristorante della città di  Lexington (Kentucky),  dove i Celtics erano in trasferta, non serviva neri. Molti tifosi hanno percepito  Russell come distaccato, distante dal suo ruolo perché per anni si è rifiutato di firmare autografi, preferendo una stretta di mano e quattro chiacchiere (“La mia intenzione era di separarmi dall’idea della star sui fan e dalle idee dei fan sulle star”). Nel suo libro del 1979, Second Wind: Memoirs of an Opinionated Man bolla la Chicago di quegli anni è descritta come “un mercato delle pulci del razzismo”, affrontato con una bella dose di ironia:”The city had corrupt, city hall-crony racists, brick-throwing, send-’em-back-to-Africa racists, and in the university areas phony radical-chic racists. … Other than that, I liked the city”. Con la sua famiglia non riuscì a trovare casa in un quartiere-bene e finì a vivere in un quartiere cattolico irlandese a Reading, a 16 chilometri da Chicago. Nel 1968 la sua casa fu violata, riempita di scritte razziste e saccheggiata. È stato il primo giocatore NBA a visitare l’Africa viaggiando con il Dipartimento di Stato americano per tenere clinic di basket in Libia, Etiopia, Guinea e Liberia. Cercava un legame vero  con le proprie origini, facendo i conti con le radici e la cultura dei padri. Michael Jordan poche ore fa gli ha reso omaggio: “Bill Russell è stato un pioniere. Da giocatore, da campione, da primo allenatore nero e da attivista. Ha spianato la strada e dato l’esempio per ogni giocatore nero che è arrivato nella lega dopo di lui, me compreso”.