Gabriele Mainetti: cerco di raccontare storie che abbiano una polifonia di strati

Dopo lo straordinario successo (oltre 1 milione di spettatori) di Lo chiamavano Jeeg Robot, Gabriele Mainetti realizza Freaks Out, un vero e proprio kolossal per gli standard italiani che affronta vari generi nella Roma del 1943. Un film ambizioso anche da un punto di vista produttivo che ha richiesto una lavorazione lunga, travagliata, con tanto di sforamento di budget e di settimane lavorative.  Per Claudio Santamaria i protagonisti sono «troppo poco fighetti per sembrare degli Avengers, più tosti e anche più simpatici dell’Armata Brancaleone, insomma degli irresistibili diversi…»  Scritto con Nicola Guaglianone il film parte dall’idea «di raccontare nella Seconda guerra mondiale dei mostri che agiscono come uomini e dall’altra parte degli uomini che agiscono come mostri».

 

 

 

Personaggi speciali ma non straordinari
Io e Nicola subito dopo Lo chiamavano Jeeg Robot ci siamo chiesti cosa avremmo fatto. Ci siamo visti nello studio della mia casa di produzione, al momento c’erano soltanto due tavoli e due sedie, e abbiamo buttato giù un elenco di tutti i film che ci piacciono e che avremmo voluto fare. Poi Nicola, in via Leonina, nel quartiere Monti di Roma, mi ha detto: «Facciamolo nella Seconda guerra mondiale». Ci divertiva l’idea di accostare al freak, che nella sua natura fisica è di per sé unico, un elemento fortemente conflittuale che è quello del nazista e vedere che cosa succedeva. Di fronte a questo conflitto così importante è nata la storia di Freaks Out.

 

 

L’omaggio a Browning
Tod Browning è il maestro di Freaks, un film meraviglioso che purtroppo non è stato accolto come doveva. Un regista prodigioso che racconta una storia coraggiosa che, però, ha messo in difficoltà la sua carriera. In realtà il titolo è nato un po’ perché in inglese freak out significa “impazzire” e il nostro villain impazzisce e poi ha un altro significato perché i nostri freaks, che sono in questo grembo che li protegge (mi riferisco al circo Mezza Piotta che  viene sventrato da un bombardamento) si trovano poi al di fuori di questo spazio sicuro e devono fare i conti con la propria diversità e con il mondo. Il film è per tutti, la censura lo ha approvato, io cerco di raccontare delle storie che abbiano una polifonia di strati quindi che possano essere fruibili a un livello più semplice, nella speranza di andare anche più a fondo possibile per chi riesce ad avere lo strumento per coglierlo.

 

Il femminile nel mio cinema
Sia per me che per Nicola il femminile è molto importante. In Lo chiamavano Jeeg Robot il personaggio di Alessia riesce a vedere nella profondità del proprio compagno la parte più bella, il vero superpoteri di Enzo è quello di poter cambiare, di diventare un animale sociale invece che un introverso sconfitto, asociale, dissociato. Nella relazione che avviene con il femminile, quel personaggio si trasforma. Qui invece c’è un percorso diverso, c’è un personaggio che si muove in una pagina oscura, terribile come quella della Seconda guerra mondiale, i nostri personaggi con le loro difficoltà, la loro diversità fronteggiano con grande onore le varie situazioni, però almeno all’inizio mi sento di dire sono – siamo -nipoti delle penne di Sonego, Age e Scarpelli, De Bernardi sono personaggi idiosincratici, impauriti, vigliacchi però poi riescono in qualche modo, grazie al rapporto reale che hanno con sé e con gli altri, a tirare fuori la parte più bella che è il loro super potere. Il personaggio interpretato da Aurora Giovinazzo essendo una donna affronta un percorso trasformativo, da ragazzina (per tutto il film viene chiamata così) diventa quasi un angelo tremendo che nel finale ci illumina tutti. E credo sia giusto quando si affronta il tema dell’identità – la ricerca del padre come realtà protettiva, il grembo materno che inizialmente è il circo, provare sistematicamente a ripararsi in altre parti, trovarsi altri padri (il personaggio di Franz Rogowski, il gobbo interpretato da Mastrota, Israel interpretato da Tirabassi), però poi bisogna staccarsi da questa figura paterna e diventare padri di noi stessi. E Matilde diventa un’adulta, una donna e nella diversità, in questo particolare momento, la donna quando riesce a essere veramente libera non può che illuminarci tanto.