A Quiet Passion di Terence Davies e il rapporto tra lo scorrere interiore della vita e il reale

C’è una scena emblematica che separa il lungo prologo di A Quiet Passion – in cui si costruisce il personaggio di Emily Dickinson da giovane, il rapporto con i familiari, il contesto scolastico da cui fugge, la sua tacita ribellione infusa nelle poesie scritte di notte – dal suo svolgimento principale, che narra con lunghe scene e brusche ellissi lo sfiorire delle speranze giovanili e il rinchiudersi in se stessa della fase matura della poetessa. In questa sequenza memorabile, uno dopo l’altro i componenti della famiglia Dickinson (il padre duramente affettuoso, il solare fratello Austin e l’adorata sorella Vinnie, la madre in un perenne stato di torpore inerte, e infine Emily) si mostrano all’obiettivo di un fotografo, in posa per uno scatto, figure che si stagliano su uno sfondo nero. Nella loro stasi Terence Davies scolpisce lo scorrere del tempo: i loro volti si trasformano, la cronologia si inceppa e con lei l’aspetto dei personaggi (alcuni attori cambiano, altri semplicemente invecchiano). Davies sceglie di sottolineare un salto temporale nel massimo momento di immobilità, quasi a suggerire che il peso dello scorrere degli anni può durare un solo istante, che il cambiamento di una vita è racchiuso in un’impercettibile effetto visivo.

In fondo, l’ultimo film di Davies – un saggio visuale sulla vita di Dickinson più che un canonico biopic – è un’opera che ha come nocciolo della questione il rapporto (manifesto e sotterraneo) tra individuo e tempo, tra lo scorrere interiore della vita e il reale, implacabile, susseguirsi di stagioni, anni, decadi che si rincorrono senza che nulla apparentemente cambi davvero. Davies è un autore che da sempre guarda al passato, ma non come oggetto archeologico di studio né come modello immutabile di un’ipotetica età dell’oro. Il suo è un rapporto dialettico, interrogativo, spesso conflittuale. Lo sguardo di Davies si rivolge ai ricordi – personali e pubblici – per interrogare, scrutare, cercare analisi e risposte. Lo ha fatto nei suoi primi film dagli spiccati tratti autobiografici (The Terence Davies Trilogy, Voci lontane… sempre presenti, Il lungo giorno finisce), nei suoi adattamenti letterari (Serenata alla luna da John Kennedy Toole, La casa della gioia da Edith Wharton, Il profondo mare azzurro da Terence Rattigan, Sunset Song da Lewis Grassic Gibbons), nel magnifico documentario Of Time and the City, in cui la biografia di Liverpool assume un carattere allo stesso tempo intimo e universale. La sua è una ricerca nel passato scavata per rispondere al presente, allo iato implacabile che separa i suoi personaggi, non a caso quasi sempre femminili, dal tempo che abitano. Non fa differenza A Quiet Passion in cui, attraverso il ritratto in controluce di una donna inquieta, in contrasto con modi e costrizioni del suo tempo, si plasma un grido di rivolta destinato a rimanere inascoltato nel suo presente ma che ancora parla a chi, oggi, sa ascoltare. «Sei sola nella tua ribellione» proclama gelidamente la direttrice del seminario femminile di Mount Holyoake dove Dickinson era costretta a studiare e a rispondere, prima ancora che a capire, a domande sulla fede e sulla fedeltà a Dio: più che un’affermazione questa si rivela una sentenza, una sineddoche che accompagnerà tutta la vita reclusa della poetessa americana. Davies affronta i temi chiave del suo cinema: la famiglia e le sue liturgie, il patriarcato ambiguo e frustrante, il diffuso e ineluttabile senso di morte, il Cattolicesimo che impone e non accoglie. Lo stile pittorico e abbagliante del film nasconde un cuore nervoso e non conciliato. Le inquadrature placide, spesso illuminate a giorno, solari e floreali, contrastano con il senso di un’esistenza mai vissuta se non nella pienezza della produzione poetica, ridotta a necessità non condivisa e umiliata nell’assenza di riconoscimenti esterni. L’identificazione dell’autore con la propria eroina appare manifesta («Emily Dickinson c’est moi», sembra suggerire Davies a ogni scatto d’ira, a ogni testardaggine d’artista, a ogni riflessione poetica del proprio personaggio). La luce abbaglia e infonde al film una fluidità stilistica, una vena placida che contrasta con i brucianti sentimenti, costretti alla compressione, di Emily. Un film che ragiona per contrasti – ricalcando l’uso dell’ossimoro chiaro sin dal titolo – e incrocia lo svolgersi della Storia con l’estraneità sempre più completa della protagonista: mentre fuori infuria la Guerra Civile, la battaglia personale di Emily si comprime in spazi sempre più angusti per chiudersi definitivamente in una stanza della casa di famiglia di Amhers, Massacchussetts, in cui l’unico linguaggio, recitato come una voice over a commento, è quello della poesia, che parla a noi e non ai suoi contemporanei. E mentre Cynthia Nixon regala un febbrile nervosismo alla protagonista, è lo stile di Davies che informa il film, gli dà profondità (di campo e di pensiero), lo definisce come un’operazione antinostalgica – e fieramente politica – sulle costrizioni familiari, culturali e sociali e sulla resistenza apparentemente passiva di un’anima orgogliosamente altra.