Colorado Springs, inizio anni Settanta. Il giovane afroamericano Ron Stallworth (John David Washington), un cespuglio di ricci in testa e idee chiare nel cervello, decide di entrare – contro ogni apparente logica – in polizia. L’ambiente razzista non lo scoraggia, anzi lo motiva fino a rifiutare un banale lavoro di ufficio per inventarsi un’indagine che sembra un ossimoro: lui, nero, riesce a infiltrarsi telefonicamente nelle fila del Ku Klux Klan locale, coinvolgendo un collega bianco, e per giunta ebreo, Flip Zimmermann (Adam Driver), per fargli da controfigura negli incontri con i membri dell’organizzazione. Un’idea da farsa che si sposa perfettamente con il lavoro politico ed estetico del cinema recente di Spike Lee. Come già Chi-Raq, versione contemporanea della Lisistrata di Aristofane ambientata nei ghetti di Chicago, BlacKkKlansman, che si ispira a una storia vera anche se inverosimile, alterna vari registri perseguendo un duplice scopo: Lee utilizza la commedia, cita i film fondativi della blaxploitation (Shaft e Superfly appaiono letteralmente sullo schermo come punti cardinali – contrapposti e complementari – di una cultura in cerca di icone), ribalta i canoni del poliziesco per creare un film (in concorso) allo stesso tempo popolare e didattico, attento all’intrattenimento ma abitato da un’urgenza politica che a tratti colpisce come un bastone.
Imbastisce un film volutamente bifronte, che strappa sorrisi su argomenti serissimi ma, una volta conquistata l’attenzione dello spettatore, improvvisamente si concede delle parentesi che sono, in fondo, il cuore pulsante del film. Il primo incarico di Ron consiste nel controllo dall’interno di alcuni membri di una cellula di studenti universitari di colore guidata dalla magnifica Patrice, occhiali e pettinatura alla Angela Davis, che ha invitato in città per un comizio Stokely Carmichael (che già si faceva chiamare Kwame Ture, in onore dei leader africani di Guinea e Ghana che erano stati i suoi mentori), uno dei più autorevoli esponenti del pensiero radicale afroamericano rappresentato dalle Black Panthers. Lee, che fino a quel momento aveva usato un’estetica seventies molto colorata e pop, rallenta improvvisamente il ritmo e concede a Carmichael una lunghissima sequenza girata quasi come un concerto (o una messa), alternando le parole del leader alle facce ritagliate su sfondo nero degli ascoltatori assorti, mostrando con una repentina mutazione di tono l’importanza di quella sequenza e di quelle parole. Più avanti nel film c’è un’altra scena fondamentale, forse la chiave di volta dell’intero discorso politico del film: il novantenne Harry Belafonte che racconta, di fronte a una platea di giovani militanti, la storia del vero linciaggio di Jesse Washington del 1916, l’anno successivo alla realizzazione di Nascita di una nazione di D.W. Griffith, il film che ha scritto il “canone” del cinema americano ma che ha anche rappresentato – come Lee sostiene da anni – un ruolo fondamentale nell’immaginario collettivo a proposito della rappresentazione dei conflitti di razza. Una sequenza/lezione che fa da asse portante dell’intera operazione politica di Lee, svela il filo rosso(bruno) che unisce il razzismo vecchio e nuovo, mostra le immagini enfatiche del film di Griffith e allo stesso tempo ne mette in scacco l’evidente razzismo.
BlacKkKlansman è infatti una riflessione sulla storia (il film si apre con una celebre sequenza di Via col vento in cui sventola una bandiera confederata) che usa gli stratagemmi dell’action, della commedia, del buddy movie per mettere in guardia e tirare delle somme. Appare quindi naturale il riferimento continuo alla contemporaneità, prima attraverso le frasi messe in bocca a David Duke, leader storico del Klan, che riecheggiano identiche nella propaganda del «Make America Great Again» di Donald Trump, fino al footage delle manifestazioni suprematiste della Virginia minimizzate dal presidente in carica. Un film a due facce, ma mai ambivalente, che si nutre di travestimenti e maschere (quasi tutti in BlacKkKlansman sono “infiltrati”, nascosti, in incognito) per sottolineare con urgenza sincera la tragica continuità con cui la tensione razziale è stata gestita dal potere americano bianco, con o senza cappuccio.