E’ sempre una questione di confini, nel cinema di Stefano Savona, di perimetri da definire e comprendere, di limiti da oltrepassare, di spazi da raccontare. La strada dei Samouni (Quinzaine des Réalisateurs) nasce come resoconto di una tragedia di guerra scritta nella storia della striscia di Gaza, datata gennaio 2009, sotto il fuoco dell’esercito israeliano. Lo stesso fuoco che Savova aveva documentato in Piombo fuso e che ora diventa l’immagine tracciante di una narrazione composta come fosse un trittico di punti di vista contrapposti, convocati sulla scena del film per definire non tanto lo statuto di verità degli eventi ricostruiti, quanto la necessità di una resa emozionale controllata e ponderata, che non inceda in quella che il regista chiama “la pornografia” delle immagini da reportage che si concentrano sui cadaveri, sul dolore e sulla violenza. L’esigenza di La strada dei Samouni nasce dal bisogno di dare corpo al dolore di questa famiglia incontrata da Savona nella periferia rurale di Gaza, quando aveva potuto raggiungere la parte Nord della Striscia, all’indomani della ritirata dell’esercito israeliano. La faniglia Samouni ha visto uccidere dai soldati e dalle bombe israeliane 29 tra uomini e soprattutto donne e bambini e Savona decide di filmarli, mettendo in piedi un’operazione di ricostruzione della loro memoria: il regista ne traccia i ricordi dolorosi di fronte alle macerie, osserva il loro sguardo e ascolta il loro ricordo. Ciò che emerge è l’assenza fisica del presente, il suo dissolversi in un’immagine mancante: l’ulivo che non c’è più, il sangue riassorbito dalla terra nel punto in cui era morto uno di loro. Savona guarda i Samouni guardare le macerie tenendo a mente La memoria fertile di Michel Khleifi, i sopravvissuti di Ma’loul fête sa destruction raccontati dal regista palestinese: l’oggetto assente è visibile nel loro racconto e il dramma da loro vissuto, allora, non può che tradursi in un immaginario altro, una narrazione che travalichi il confine del visibile immediato per trovare la sua moralità resistente nel gesto di filmare il narrato. Ecco dunque l’atto grafico che scavalca le mancanze di quello fotografico: viene immediato il lavoro sulle altre due prospettive trovate in La strada dei Samouni, quelle animate nel segno grafico di Simone Massi, che tratteggia in bianco e nero, a colpi di china, il racconto della ricostruzione dell’attacco dei soldati reso dalla prospettiva di una bambina; e quelle animate in digitale, che riproducono la prospettiva del drone da cui sono partite le bombe che, dopo il primo attacco, hanno compiuto la strage di donne e bambini rifugiati in casa e scambiati per soldati nemici.
Savona instaura così un dialogo muto tra la ricostruzione finzionale della scena bellica da lui effettuata, anestetizzata nel punto di vista neutro e fallace del drone, e la ricostruzione emotiva dalla tragica notte resa nell’animazione di Massi, macchiata di terribile nero. Da una parte i corpi come macchie termiche colte dall’occhio meccanico, dall’altra le persone rese come segni emotivi nitidi e drammatici dalla mano del disegnatore. Su tutto resiste l’immagine filmata, documentaria, di Savona, che osserva quelle persone nella loro vita resistente successiva al dramma: si aggirano tra le macerie, infine celebrano il loro matrimonio: Nozze in Galilea, ancora Khleifi nume tutelare di questo film che si impone con una drammaticità dignitosa, netta, lontana da speculazioni, astratta nella funzionalità grafica della ricostruzione e aggrappata all’importanza vitale del ricordare e del testimoniare.