Drive My Car e il gioco di trasparenze di Ryûsuke Hamaguchi

Un road movie atipico, con tutto ciò che lo spostarsi comporta nelle vite dei personaggi: la crescita, la consapevolezza, la comprensione verso l’altro, ma senza davvero compiere un viaggio. O meglio, in Drive My Car Ryûsuke Hamaguchi (che qualche mese fa ha vinto il Gran Premio della Giuria a Berlino con il precedente Wheel of Fortune and Fantasy) mette in movimento continuo i suoi personaggi nelle tre ore di durata, ma con spostamenti lievi che assomigliano a passaggi di stato, più che di luogo. La nuova stella del cinema giapponese, si ispira qui al racconto omonimo di Haruki Murakami, a sua volta contenuto nella raccolta Uomini senza donne e si consuma nell’arco di cinque anni, con ellissi profonde e misteri lasciati sospesi, durante i quali sembra di tornare sempre al punto di partenza: la parola e il suo potere. Ryûsuke è un attore e regista teatrale che sperimenta una forma poliglotta di messa in scena. Riproponendo Cechov, si circonda di attori di nazionalità e lingua diverse (giapponese, cinese, filippino…) in modo da esasperare l’effetto straniante e moltiplicare la relazione tra fisicità e parola stessa.

 

 

Quando viene ingaggiato da un teatro di Hiroshima per lo Zio Vanja, però, quasi tutto si è già consumato, vale a dire la scoperta dell’infedeltà dell’amatissima moglie Oto, la sua morte improvvisa per emorragia cerebrale, la diagnosi di un glaucoma all’occhio sinistro. La reazione a tanto dolore è la chiusura severa, la solitudine e l’ascolto costante nella sua auto d’epoca, della voce registrata di Oto che le dà le battute delle sue produzioni. A Hiroshima, però, è costretto ad accettare un’autista per i suoi spostamenti e con lei, prima che con alcuni attori, si innesca lentamente un meccanismo di reciprocità, che passa dal silenzio al racconto, dalla distanza alla confidenza. Proprio lui che racconta sui palcoscenici centinaia di storie “altrui”, si trova forse per la prima volta a raccontare la sua, analizzandola in ogni dettaglio. Per Hamaguchi non si tratta tanto di filmare la parola, quanto di metterla in cortocircuito, tra Murakami e Cechov, appunto, tra tradizione e innovazione, passato e presente. Tutto in tras-parenza, nel gioco continuo di vite reali e finzionali, le proiezioni del sé dei personaggi e la loro reale identità, le rivelazioni che arrivano dal passato e da gesti erroneamente trascurati. E non è un caso che tra le lingue portate sul palcoscenico da Ryûsuke ci sia anche quella dei segni. In questo continuo passaggio da “dentro a fuori” c’è proprio il senso di un film lieve e profondo, teatrale in quanto concentrato con lo sguardo sui lievi movimenti, sulle intonazioni e sulla lontananza/vicinanza dei corpi, e sull’accumulazione di sensi, sentimenti, confessioni e circostanze. La tensione finale, come ogni dramma, porterà alla comprensione e allo scioglimento dei nodi, per ricominciare presto un nuovo viaggio.