Cannes74 – Haut et fort di Nabil Ayouch e l’invadenza della fiction

Asan è in macchina, perso nelle strade di Sidi Moumen, il sobborgo di Casablanca da cui provenivano i terroristi autori degli attacchi suicidi del 2003 e del 2007. Asan è un rapper, la cui carriera si suppone a un punto morto, ed è diretto al centro culturale del quartiere dove è destinato a insegnare hip-hop ai ragazzi di zona. Il suo approccio – con la dirigenza scolastica e con gli alunni – conflittuale: disegna un murales per ravvivare l’aula senza il permesso della responsabile e scortica con caustici commenti i primi timidi tentativi espressivi della sua classe. Ma Asan sa come stimolare i ragazzi, li critica e poi li sprona, cercando di solleticare la rabbia sopita e stimolare una creatività espressiva. Ovviamente la scintilla scatta, ma portare pulsioni di libertà in un tessuto sociale intriso di regole, religione e tradizionalismo comporta un prezzo da pagare. In Haut et fort, Nabil Ayouch descrive dall’interno una condizione sociale disagiata e lo fa attraverso i mezzi della pura osservazione. La prima parte del film è infatti un susseguirsi di lezioni e prove in cui gli studenti prendono coscienza dei propri mezzi e si approcciano con dedizione e una possibilità di esprimersi che prima ignoravano. Il modello è quello del Cantet di La classe: un ritmo sincopato che ci presenta i vari personaggi e ce li fa conoscere attraverso dialoghi, confronti, prime abbozzate esibizioni.

 

 

Affiorano ben presto similitudini e divergenze; si legge in controluce l’aspirazione a una realizzazione individuale che riguarda uomini e, soprattutto, donne; si afferma la capacità di Asan di codificare comportamenti di libertà, di spronare al limite, di comunicare un coraggio che passa attraverso l’uso di parole “forti e chiare”. L’utilizzo dei veri studenti del centro, alle prese con la messa in scena di una versione parallela di loro stessi, dona credibilità al percorso costruendo un impianto dal forte sapore documentaristico che rimanda, nei momenti migliori, al magnifico A voix haute di Stéphane De Freitas e Ladj Ly girato durante i corsi di retorica dell’Università di Saint-Denis. Ma le individualità che lì venivano autocostruite attraverso l’uso sempre più consapevole della parola, qui perdono di forza nella necessità di costruire peculiarità narrative spesso solo accennate. La scommessa di Ayouch si incrina quando la fiction forza la mano e impone le proprie regole. I dialoghi familiari, le storie personali, i drammi esistenziali dei ragazzi e delle ragazze sono costruiti seguendo schemi precotti: l’intrusiva religiosità, la condizione femminile di perenne e inscalfibile subordinazione, la povertà diffusa e i cascami sociali che ne derivano sono i temi che drammaticamente informano la vita di Sidi Moumen ma la loro rappresentazione è schematica, a tratti didascalica. E il modello di osservazione del reale presto scema in una parabola narrativa prevedibile che culmina nel modello abusato de L’attimo fuggente di Weir adattato in un concerto sul tetto stile Beatles. In Haut et fort si lasciano intuire le potenzialità sociali e culturali di una forma musicale che è espressione di sé e delle proprie istanze ribelli, ma a restare negli occhi è, più che il percorso imposto dagli autori alla storia, lo sguardo fiero di una gioventù che si sente – e che si spera rimanga – mai doma e corruttibile.