Il lavoro di sottrazione in La zona di interesse di Jonathan Glazer

Una famiglia prende il sole sulla riva di un fiume. Cielo terso, bambini, un clima di festa. Il gruppo prende la strada di casa: una curata villetta di campagna, stile sobrio, un po’ Bauhaus. Un giardino ordinato: aiuole di fiori, prato rasato, una zona ricca di piante, una piscina con scivolo, una serra. Uno stuolo di figli, un cane che scorrazza, una padrona di casa assertiva e radiosa e uno stuolo di cameriere che, attente, eseguono gli ordini. E poi, sullo sfondo, un muro di cinta oltre il quale si intuiscono indistinte costruzioni, sovrastate da una ciminiera. Oltre quel muro non andremo mai, ma quello lì dietro, destinato a essere nascosto dai filari di vite piantati da poco, è il campo di concentramento di Auschwitz, il luogo nero, simbolo di morte se mai ce n’è stato uno. La famiglia è quella di Rudolph Höss, solerte comandante del campo, che ha immerso i suoi cari in un paradiso bucolico costruito accanto a una fabbrica di morte. La zona di interesse  di Jonathan Glazer – liberamente tratto da un romanzo di Martin Amis  – mette in scena questo contrasto assoluto, questa dicotomia morale, questo incontro impossibile di estremi. Il nostro sguardo si posa insistentemente sui gesti quotidiani di un gruppo di privilegiati, mentre la nostra mente – il nostro voler creare un’immagine dell’inimmaginabile – non può fare a meno di pensare ciò che avviene oltre quel muro, a pochi metri di distanza. Glazer crea questo cortocircuito disturbante attraverso una regia asettica, quasi chirurgica. Inquadrature fisse, fotografia naturale e fulgida, rari carrelli laterali.

 

 

L’impatto è fortissimo: siamo costretti a vivere con gli Höss, a seguirli nei rituali familiari sempre uguali, nell’esistenza privilegiata, nei sobri festeggiamenti per il compleanno del comandante. Con lui assistiamo a una riunione di lavoro in cui si fantastica dell’efficienza impeccabile di un nuovo forno crematorio. La tensione è palpabile ma sempre sottotraccia, il film lavora per sottrazione, quasi per astrazione per indurci a un senso di nausea sospeso tra distopia e incredulità. Anche la recitazione dei protagonisti (Sandra Hüller e Christian Friedel), che meccanicamente ripetono sempre gli stessi gesti e le stesse private liturgie come a un passo da loro l’orrore e la morte si moltiplicano, è ingessata: lui con la rigidezza ostentata del militare, lei con una goffaggine nel passo che sottolinea un’umile origine. L’apologo sulla banalità del male non è nuovo ma è comunque efficace e comunica un senso di malattia funerea che pervade il racconto. Il problema è che Glazer è in grado di creare con eleganza stilistica atmosfere malate, meno di costruire un’evoluzione psicologica dei personaggi. Infatti, con il procedere degli eventi e l’incalzare della Storia – insomma, quando c’è qualcosa da raccontare e non una suggestione da descrivere – il film inciampa, si incarta, risulta meno incisivo e – soprattutto – spaventoso. Inserti onirici dal sapore favolistico e smaccatamente simbolico (Hänsel e Gretel, la strega e il forno) non si coagulano bene con il rigore della messa in scena e il senso di tossica empatia che aleggia tra i personaggi rischia di diluirsi fino a perdersi del tutto. La zona di interesse (in concorso a Cannes76) mostra tutti i pregi e i limiti di Glazer: una brillante intuizione estetica e metaforica che rappresenta l’oscena quotidianità di uno dei più brillanti tra i volenterosi carnefici di Hitler ma che non riesce a farsi fino in fondo metafora compiuta del luogo-simbolo della brutale indifferenza dell’essere umano, capace di governare l’Inferno in terra con il piglio di un semplice dirigente d’azienda.