La fluidità geometrica di Anatomie d’une chute di Justine Triet

Una scrittrice sta concedendo un’intervista seduta su una poltrona del suo chalet nelle Alpi francesi. È sorridente, sorseggia un calice di vino con atteggiamento seduttivo. Improvvisamente una musica ad alto volume rompe l’atmosfera: è il marito che, al piano di sopra, si è messo a lavorare alla ristrutturazione della casa con un accompagnamento sonoro che interrompe la conversazione. L’intervista è finita, il clima rivela improvvisamente indefinite tensioni nascoste. Poco dopo la donna si ritira per un sonnellino, il figlio – quasi cieco a causa di un incidente misterioso di qualche tempo prima – si avvia per una passeggiata con il suo cane e quando torna trova il cadavere del padre riverso sulla neve ormai intrisa di sangue. L’ipotesi del suicidio ben presto si smonta e Sandra, la moglie, viene arrestata con l’accusa di omicidio. Ad assumere la sua difesa un avvocato (un vecchio amico che la guarda con ardore, forse innamorato di lei) che dovrà ricostruire i fatti con una certa dose di fantasia per togliere dai guai la sua cliente. In Anatomie d’une chute  (Palma d’oro a Cannes76) Justine Triet – scoperta in una sezione parallela di Cannes con La Bataille de Solferino e arrivata in concorso nel 2019 con il discontinuo Sybil – costruisce un dramma familiare manipolandolo attraverso i canoni del film processuale: dopo l’inizio a effetto, infatti, il film si chiude nelle aule del tribunale alternando però le scene del procedimento giudiziario con ricordi, ricostruzioni, ipotesi della rottura definitiva di una relazione di coppia.

 

 

Cosa ha portato a quella frattura? L’invidia dell’uomo, anche lui aspirante scrittore, per il successo della moglie, offuscato anche da un potenziale plagio? Il rancore della donna che lo ritiene ancora responsabile per la cecità del figlio? Triet indaga per suggestioni, diffonde di ipotesi lo sviluppo narrativo, regala poche certezze instillando un continuo beneficio del dubbio. La struttura sembra quella di un puzzle, forse senza soluzione, con dei pezzi mancanti. Sandra Hüller – bravissima – regala alla sua protagonista una calma a tratti inquietante, una sicurezza di toni, un’affettività talvolta glaciale. Triet sfrutta la location montana – una casa accogliente e perfetta incastonata nella natura – per disegnare invece una disgregazione, un punto di rottura, una domanda ineludibile destinata a cercare risposte nel tribunale di Grenoble.

 

 

Il film mantiene una sua tensione, nonostante una durata forse appesantita da eccessive reiterazioni, e coglie bene l’aspetto di sospensione, quel filo sottile che separa una tragedia che non si è saputo evitare da un atto criminale, deliberato, violento. Il titolo ben descrive il lavoro della messa in scena: una seduta anatomica che, assieme al corpo della vittima, viviseziona le difficoltà relazionali di una famiglia ferita. Il giudizio è sospeso, infine affidato alla vista opaca del bambino, costretto a risolvere, nello stallo generale di un mondo adulto impossibilitato a giudicare fino in fondo, l’incapacità di comprendere le dinamiche di vite ormai impermeabili alla felicità. Anatomie d’une chute è un film fluido, geometrico, per certi versi algido e irrisolto, ma capace di scandagliare a fondo l’animo oscuro che potenzialmente si nasconde in ognuno di noi, quando siamo costretti a confrontare le nostre speranze e i nostri desideri con la distesa bianca di neve che copre il nostro dolore quotidiano.