Diventare grandi: Freaks Out, di Gabriele Mainetti

L’attenzione ai disallineati Gabriele Mainetti l’ha sempre avuta: personaggi borderline, ai limiti della società stessa e in cerca di un posto non sempre trovato. Per un Jeeg/Enzo Ceccotti che ce la fa, c’è un Antonio/Lupin che in Basette ha un destino più amaro. E proprio nel rapporto fra queste vite al limite e i modelli che potrebbero fornire altre soluzioni, altre destinazioni e persino altri riscatti, c’è tutta la sostanza di un cinema capace di coniugare un certo amore per la cultura pop con un’attenzione alla verità dei suoi personaggi. In questo senso, Freaks Out segna un piccolo scarto: non perché, fin dal titolo, i protagonisti non siano degli outsider, tutt’altro! Mario il nano magnetico, Cencio l’albino che comanda gli insetti, Fulvio l’uomo lupo e Matilde la donna elettrica partono anzi da una situazione a loro modo integrata, che trova nel circo uno sfogo naturale per le proprie capacità e la loro eccezionale bellezza. Il problema nasce dopo, da un mondo in guerra che li strappa alla comfort zone, costringendoli a inseguire nuove possibilità e, più di tutto, a sopravvivere in un’avventura che sarà anche riscoperta delle proprie forze. In questo senso, è ancora una volta possibile vedere in filigrana dei possibili modelli da cui Mainetti (con il fido sceneggiatore Nicola Guaglianone) attinge: se il circo può rimandare a Fellini e il contesto freak in tempo di guerra suggerisce un legame con Alex De La Iglesia o Guillermo del Toro (senza dimenticare il precursore Tod Browning), è pur vero che per la prima volta Mainetti non pesca da un antecedente esplicito e dialogando col quale definisce i suoi personaggi. Non Lupin, non l’Uomo Tigre di Tiger Boy (sebbene la suggestione fosse più ideale che altro) né tantomeno Jeeg Robot, che qui si rivede solo nei titoli di coda, nella lunga e bella carrellata disegnata delle grandi personalità “ispirazionali” del ventesimo secolo.

 

 

 

In un certo qual modo è come se Freaks Out fosse il film con cui Gabriele Mainetti, mentre mette in scena il più colossale gioco del cinema, allo stesso tempo capisce che è tempo di diventare grandi, di dare ai personaggi una vita propria, che non si legittimi nel rispecchiamento con un prototipo positivo altro. Il modello con cui confrontarsi è invece negativo, quel nazismo che vuole utilizzare i freak per foraggiare il sogno (l’incubo) della Grande Germania hitleriana, riscrivendo il corso stesso della Storia. La lotta di questi quattro outsider contro il moloch disumano diventa così un gioco al rimbalzo in cui, mentre il gruppo si coalizza e raggiunge lo zenith delle sue capacità, al contempo vede fallire tutti i propri desideri e il proprio mondo: la missione per recuperare il “padre” Israel, il proposito di Matilda di non uccidere, la voglia di unirsi al circo di Franz che sembra garantire fortuna e gloria. Diventare grandi è un po’ lasciar andare il sé stesso precedente, abbandonare i sogni e sporcarsi le mani, uscire dal circo per abbracciare le sfide del mondo in guerra. La lotta epica dei protagonisti diventa così un ideale riflesso di quella intrapresa dallo stesso Mainetti contro un progetto-monstre, passato per una lavorazione epica in cui l’autore ha dovuto letteralmente “domare” le dimensioni produttive del film per riuscire a farlo proprio, per aprire piccoli scarti di umanità in una vicenda altrimenti destinata a sprofondare sotto il peso delle proprie ambizioni e del suo meccanismo spettacolare.

 

 

 

Mainetti lo fa attraverso un doppio passo, che da un lato lo porta ad accettare il gigantismo della sfida, sfruttandone ogni possibilità per esibire il precipitato spettacolare dell’avventura. Freaks Out ha così il sapore delle grandi epiche del passato, cerca un sense of wonder affine agli autori citati in precedenza, esibisce con orgoglio i suoi numeri e la muscolarità degli effetti secondo un modello kolossal che il cinema italiano sembrava aver dimenticato. Ma allo stesso tempo, ancora una volta, cerca la verità dei suoi personaggi, li lascia interagire in scioltezza, ne coglie le debolezze e gli umanissimi desideri (l’amore fra Cencio e Matilda per esempio), ne asseconda la cifra un po’ cialtrona da cascame monicelliano. Soprattutto, accetta di lasciar impazzire (to freak out, appunto) la sostanza stessa del film, che diventa una visione lisergica affine a quelle con cui Franz vede il futuro sperando di cambiarlo: il tono passa così dal sense of wonder iniziale al dramma e si fa via via più sovraeccitato, i personaggi urlano, si agitano, le scene di battaglia sono ossessive e sia i buoni che i cattivi appaiono in stato di perenne iperventilazione. E così, quel modello mai cercato o esplicitato davvero si palesa sotto i nostri occhi: questa è una storia di personaggi ultra-umani, dei supereroi, il film sui Fantastici 4 che la Marvel non avrà mai il coraggio (o l’incoscienza) di fare, perché quello è un cinema che ha paura di diventare grande. Gabriele Mainetti, per fortuna no.