Femmine folli: Quello che non so di lei di Roman Polanski

Lo schema è ben codificato, sta tutto nella specularità di una folle femminilità inscritta nel gioco relazionale a due: il rispecchiamento tra vittima e carnefice corrisponde a quello tra la matrice e la copia, equilibrio che è equazione in fuga dalla realtà, nelle spire di una soggettività che relativizza tutto. Del resto quello proposto questa volta da Polanski è un confronto a due che nasce “D’après une histoire vraie”, da una storia vera, dove ovviamente la verità è una funzione della finzione – letteraria, cinematografica… Delphine (Emmanuelle Seigner) è una scrittrice di successo, personaggio di un romanzo di Delphine de Vigan in cui la scrittrice francese elabora nella fantasia la difficoltà di gestire il successo del suo libro precedente dedicato al suicidio della madre (“Rien ne s’oppose à la nuit”). La mise en abyme è il vortice sul quale si costruisce l’identità del film, in un gioco che non lascia spazio alle vie di fuga: tutto corrisponde perfettamente a uno schema adeguato al cinema di Polanski, dove le relazioni sono specchi opachi, ogni personaggio è il “ghost writer” di se stesso, lo spettro cannibale dell’identità avvelenata dell’altro. E allora: Deplhine trova il suo riflesso in Elle (Eva Green), professione ghost writer, sua ammiratrice inquieta e spiazzante. Le due diventano sempre più vicine, amiche e controfigure reciproche, con Elle che accerchia Deplhine, la chiude al mondo, la sigilla sempre più, prendendo il suo posto nelle relazioni con i lettori, gli editori, gli impegni di lavoro. La costringe a scrivere quel “romanzo segreto” che dice di covare dentro, trasformando sempre più il loro incontro in una trappola avvelenata.

 

Non che le risonanze siano superflue (da Misery di King all’Aldrich di Baby Jane, sino all’Uomo nell’ombra, ovviamente…), ma Polanski ci gioca tenendole come matrici di un processo che sul riaffiorare degli indizi lavora in maniera volutamente piana. Intanto il film si snoda con letterale fedeltà alla verità della storia, come da titolo, invertendo le parti tra copia e matrice, scardinando la porta che separa la realtà dall’immaginazione, la carne dal personaggio, la materia dall’ispirazione. La pagina bianca che blocca Delphine è l’alter ego dei quadernetti coi suoi appunti rubati da Eve, l’istinto di fuga dal suo ruolo di successo ribalta la prigionia nella sua casa, la fuga nel ritiro di campagna evoca la dimensione sempre più mentale del delirio indotto, in cui la protagonista si chiude. La tradizionale inquietudine polanskiana del rapporto tra la verità dei personaggi e le menzogne che essi covano, diviene qui la forma stessa del film, senza però che questo si traduca in una formulazione filmica. Non ci sono ombreggiature, non c’è nessun picco, tutto funziona come previsto in maniera piana, uniforme. La sceneggiatura porta la firma di quel grande narratore del mistero femminile che è Olivier Assayas, ma per certi aspetti viene in mente il Kiarostami di Copia conforme: la medesima evidenza della posa in opera, lo stesso rapporto ambiguo con la difformità tra vita e finzione.