Alessandro, Gioele, Matteo e Samuel sono quattro amici ventenni che vivono in provincia di Ferrara, a Goro, sul confine nord-orientale del Delta del Po; un paesaggio liquido e lacustre, composto da pali di legno e canneti, dove la pesca dei molluschi costituisce la principale attività lavorativa della zona. I quattro protagonisti frequentano un corso dedicato alla pesca promosso dall’istituto professionale “Cesta”, con lo scopo di combattere la dispersione scolastica attraverso la formazione lavorativa; qui possono così seguire lezioni sia teoriche (tra cui anche un corso base di lingua inglese), sia pratiche (la costruzione di nasse e strumenti affini alla pesca) con la speranza (più dei docenti che degli allievi stessi) di avere un futuro migliore, nonostante sia già scritto nei loro destini. Perché quando le lezioni terminano, se si presentano in classe, nel pomeriggio i ragazzi si dedicano alla pesca vera e propria, attività familiare che si tramanda da generazioni.
Sì, il loro futuro è già impresso nella loro vita, nonostante la possibilità di ottenere un diploma con la conseguenza di poter trovare professioni differenti dalla pesca; eppure, i ragazzi sentono la vocazione dell’aria aperta, dell’odore di salsedine, della fatica di raccattare molluschi: per loro questa è la vita, la stessa dei loro padri e dei loro nonni, gli scorre nelle vene come l’acqua salmastra di Goro, città natale di Milva la pantera, la cui immagine fiammeggiante campeggia su un cartello all’ingresso del paese (forse icona troppo âgée per essere conosciuta dai giovanissimi).
Francesca Sironi e Alberto Gottardo, dopo due corti e l’esordio col primo docufilm Marghe e Giulia, crescere in diretta, dirigono e scrivono uno spaccato generazionale di provincia con rigorosa e calibrata asciuttezza, pedinano i soggetti con disincanto della realtà in cui si muovono (la cosa non è affatto scontata visto che il lavoro è iniziato nel 2017, quando i ragazzi avevano 16 anni), raccolgono fragilità e ottusità di vita paesana in cui le uniche attività principali sono pescare e pulire molluschi: o fai questo e te lo fai piacere fin da piccolo, o devi cercare altro ma non lì. Le ambizioni possono esplodere anche dopo molto tempo, come il collega trentenne di uno dei quattro e addetto alla selezione delle cozze, il quale nutre il sogno di terminare un corso di pasticceria e mettersi in proprio; avere vent’anni non era una colpa, forse lo è oggi (così come averne trenta), soprattutto se si nasce in zone con l’aggravante della dispersione scolastica e la continuazione della professione famigliare, dove il dialetto locale soffoca ogni altra forma linguistica (scalfendo però l’ennesimo cliché legato al meridione) e dove la voglia di riscatto si affievolisce sin dalla pubertà (infatti uno dei docenti dell’istituto si prodiga affinché i ragazzi s’impratichiscano sul luogo di lavoro, all’aria aperta).
L’aspetto tenero, però, di tutto questo lavoro di raccolta neo-neoreale, votato all’inerzia dei corpi inquadrati (Fortuna granda, ricordiamo, ha vinto il Premio Solinas come Miglior documentario per il cinema nel 2020) sottolineati dalle sonorità originali di Iosonouncane, sono i rapporti con le famiglie; rapporti ricchi d’affetto e di comprensione (la rassegnazione c’è ma viene ben presto incamerata, meglio lo stipendio dell’istruzione); l’amore di certo non manca ai ragazzi, i loro genitori sono portatori di sincerità del loro bene, che può manifestarsi attraverso una mezza mozzarella di bufala o una maglietta pulita di ricambio, questo fa la differenza: sentirsi amati e compresi nonostante le scelte prese o che verranno prese in futuro. L’importante è che i ragazzi stiano bene e forse, tutto sommato, è proprio questa la loro fortuna granda.