Incoscienza di classe: Palazzina LAF di Michele Riondino

Non è certo un eroe, Caterino, e nemmeno un antieroe. Semmai, il protagonista di Palazzina LAF è un non-eroe, un unonessunocentomila della scena sociale italiana, che cerca talmente tanto il suo autore da finire col fare il pulcinella del suo padrone. Michele Riondino lo forgia nella materia grezza della sua Taranto, piccolo uomo aggrappato al suo stolido egoismo senza rendersene conto, un poverocristo detestabile e simpatico, sapido della sua verve arlecchinesca in cerca della bastonata e torvo nella sua malferma e inutile cupidigia scambiata per scaltrezza. Non ha un corrispettivo reale nella drammatica storia vera della Palazzina LAF, Caterino, ma è il perturbante cinico e grottesco dello scenario realistico ricostruito da Michele Riondino (assieme a Maurizio Braucci e idealmente Alessandro Leogrande) sulle macerie umane e industriali lasciate dall’ILVA dei Riva nell’acciaieria tarantina sul finire degli anni ’90. Quando, mentre si inquinava a morte l’aria della città col beneplacito dello Stato, sotto la bandiera della ristrutturazione aziendale si fece scempio dei diritti dei lavoratori (donne e uomini) che risultavano scomodi per impegno sindacale o per motivi di (s)favoritismo. E dal momento che costoro non accettavano mansioni degradate, non adeguate alla loro professionalità, venivano assegnati alla famigerata Palazzina LAF, una sorta di parcheggio punitivo in cui marcivano senza avere nulla da fare.

 

 

Intanto in fabbrica si moriva sul lavoro e fuori dalla fabbrica per asbertosi e mielomi vari: crepa operaio, tutto va bene… E se crepa pure tutta la città, chi se ne frega. Da questo scenario, drammaticamente vissuto sulla pelle di un’intera popolazione, Michele Riodino trae un film – la sua opera prima! – potente e deciso, che sta in sapiente equilibrio su quella sottilissima linea di demarcazione tra dramma e commedia che è il grottesco. E partendo da questo dà corpo a una visione tragicamente realistica della città e della sua gente, della classe operaia e di quella imprenditoriale, dell’inconsapevole dolore di chi subisce nell’ignoranza il proprio destino e della colpevolissima accondiscendenza di chi infierisce nell’indifferenza sul destino altrui. Caterino sta in mezzo a tutto questo, un operaio come tanti che invecchia precocemente all’ombra degli altiforni, senza coscienza alcuna (ancor meno di classe…) che non sia lo stipendio a fine mese e il cartone di latte da bere, offerto dalla ditta per disintossicalo. La sua nemesi è Giancarlo Basile, dirigente al servizio dei Riva, praticamene il loro sgherro: ha il passo sciancato, i capelli bisunti, il viso laido di un Elio Germano che non lascia scampo all’umanità del suo personaggio. Un farabutto senza mezzi termini, privo di qualsiasi simpatia anche quando avvicina Caterino alla fermata del bus e lo circuisce con la perversione di un pedofilo che offre caramelle a un bimbo: il posto da caporeparto e l’auto aziendale per fare la spia sotto gli altiforni. E Caterino, come fosse un bambino, accetta.

 

Ma non basta, perché attratto dalla prospettiva di stare lontano dagli altiforni e invidioso dei colleghi della Palazzina LAF, che a suo dire passano le giornate a godersi la vita, chiede a Basile il privilegio di essere trasferito lì… Beata stupidità di un poveraccio, che non si fa scrupolo di riferire per filo e per segno tutto ciò che vede e che sente in quel girone grottesco e manicomiale popolato di anime sospese sulla pena del non aver nulla da fare: chi dice il rosario, chi prende il sole, chi pesta cartoni, chi gioca a ping pong, chi russa in un angolo o forse ruggisce una minaccia repressa… Tutti costretti in un laboratorio del mobbing aziendale applicato a professionisti qualificati della siderurgia, che non sottostanno alla prevaricazione del padrone. E Caterino che ride, con l’aria furba di chi ha saputo cogliere un’occasione e ora finalmente siede in un ufficio di una palazzina fatiscente, mentre con la sua ragazza albanese va a vivere del noto quartiere Tamburi, in un appartamento con vista sulle ciminiere ILVA. Il destino di Caterino è già scritto: è un poverocristo che è Giuda di se stesso (come suggerito nella bella sequenza onirica e rapsodica della processione dei Misteri), un simulacro d’umanità che si lascia manipolare dal padrone pensando di esser padrone di sé. Michele Riondino lo incarna con triste ironia, ne scarnisce la povera umanità e ne schernisce la fatale stoltezza, ne veste con sdrucita lucidità la maschera da teatro dell’arte: scaltrezza chapliniana nello schivare le guardie, accondiscendenza arlecchinesca nei confronti del padrone, pulcinellesca furbizia nel farsi fare fesso dal prossimo. Ma alla fine quel che resta di Caterino è la sua solitudine: tosse e catarro di un uomo avvelenato e solo, senza miserie e senza nobiltà. Povero non-eroe di un film che sceglie la linea grottesca per trovare il realismo di vicende e personaggi purtroppo veri. Teho Teardo sorregge il tono affiancandosi alla articolazione visiva molto dinamica adottata da Michele Riondino per questo suo sorprendente esordio, pieno di coraggio nello stile e nel dire.