Il senso del film di Massimiliano e Gianluca De Serio, presentato alla Berlinale75 nella Sezione Forum, è forse racchiuso in quella straniante sequenza finale che con il suo procedere al contrario conferisce al film una sua precisa connotazione, diventando, con l’uso di un registro che appare come un canone inverso di lettura, ricerca su un fronte culturale popolare che viaggia in una direzione del tutto opposta a quanto il presente sembra pretendere. Canone effimero, con un titolo che preannuncia una certa caducità del suo contenuto e quindi la necessità di preservarlo, è un componimento diviso tra la musica, il cinema e l’etnografia, un film come da tempo non se ne vedeva e come, invece, da tempo, e in modo sempre più stringente se ne avvertiva la necessità. Film antologico di un’Italia che viaggia lenta contro ogni dettame, che scava e conserva tradizioni musicali e canti che ridefiniscono i tratti delle comunità di appartenenza. Si parte dalle aree interne della Calabria, fedeli ad una certa idea del tempo che sembra essersi fermato del tutto estraneo ad ogni sollecitazione e con questo stesso spirito si raggiunge la Sicilia e poi la Liguria, la misteriosa Sardegna, i monti Sibillini, si lambiscono i luoghi e si cercano quelle note che hanno segnato i tempi di famiglie e interi paesi, in una ulteriore unificazione di intenti nell’autonomia delle culture. Si ricordano nomi di liutai famosi i cui pezzi pregiati si conservano con pazienza e accortezza museale e si ricordano intere famiglie, dinastie di lavoratori che da nord a sud hanno fatto il tessuto economico dei loro luoghi d’origine.
Massimiliano e Gianluca De Serio, ricompongono in un viaggio in un’Italia sotterranea pezzi di una memoria che oggi vive in quell’arcipelago di isole solitarie, uomini o donne che sono gli ultimi a ricordare quei fatti, quei volti, quei canti, che come litanie religiose diventano invocazioni di un passato che merita di essere conservato. Al tempo stesso Canone effimero non diventa prodotto di consumo, e conserva una sua forte prerogativa autoriale che comincia dalla scelta di un formato non adeguato a chi cerca una immediata spettacolarizzazione di questa ricerca. Nella sua forma perfettamente quadrata del’1:1 il film prova a focalizzare l’immagine piuttosto che ingigantirla, stringere l’attenzione sul particolare senza mediazioni, nel formato forse più antispettacolare che il cinema possa offrire. Diviso in undici capitoli Canone effimero diventa una nuova antologia di una musica popolare che ci arriva da un passato che la presenza giovanile e la passione per la ricerca delle nuove generazioni fa diventare, invece, coeva ai nostri tempi e quindi il film diventa anche interpretazione controcorrente rispetto alla diffusa opinione negativa che si nutre nei confronti delle nuove generazioni in relazione ai loro gusti musicali. I cori che dalla Sicilia in su si esibiscono nel film testimoniano, invece, un’altra versione e un altro modo di avvicinarsi a quella musica, che diventa la leva per guardare al passato che l’ha generata e quindi al loro stesso tempo e a quello delle generazioni precedenti alla loro. Un film che racconta di questa Italia che vive nascosta e come in un film di fantascienza, tramanda segreti e tradizioni per un loro uso futuro, consapevole del valore che quelle note e quei saperi possiedono. Tutto avviene in un processo che sa essere anche di interpretazione linguistica, in uno svilupparsi di quell’interesse che diventa canone interpretativo della loro vita futura.
Non sono quindi parole di bell’effetto quelle che ridefiniscono il film dei due registi piemontesi come necessario, ma fondate sulla consapevolezza di molte questioni, a cominciare dal tempo che trascorre e che come un fiume sempre più in piena trascura i dettagli e porta via inesorabilmente pezzi di un passato che è stato importante. Una seconda certezza è quella della potenza del cinema come sintesi di altre arti e a sua volta autonoma disciplina che diventa strumento d’arte e di conservazione, teca della memoria e sistema espositivo al tempo stesso senza diventare fredda e didascalica riproduzione museale, ma trasformando in vita vera e vissuta – bastano i filmati riprodotti con il cellulare a confermare ulteriormente il legame dei tempi e del tempo tra passato e presente – le immagini alle quali partecipa, come in una pausa di riflessione, un po’ alla Ozu, un paesaggio che silenziosamente sembra assistere, un po’ attonito, allo svolgersi di questi tempi. Ma non c’è traccia di freddezza in questo ascolto controcorrente che Canone effimero vuole essere, neppure quando la neve sembra salire invece che scendere, in altre parole non c’è traccia di lingue morte, ma quelle immagini e quelle storie sanno stare vive e forti sullo schermo, raccontando il presente attraverso un canone che diventa sempre più flebile, è vero, ma è per questo che il cinema interviene, non a sacralizzare, non a irrigidire in una posa mortuaria, ma a restituire vita attraverso i volti di tutti quei protagonisti.